Il 25% delle donne viene molestato online: le parole degli ‘odiatori’

Le donne costituiscono il bersaglio principale degli ‘odiatori seriali’ della rete. Un focus sull'hate speech, un fenomeno che evolve di pari passo con il Web, alterando la coesistenza digitale

L’ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla; e te ne ringrazio (…)

Dopo quel bacio io son fatto divino.

Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo,

il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi (…)

U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis

 

Il 70% delle donne, in Italia, ha subito violenze nella propria vita. Il dato parrebbe eccessivo e inverosimile, se non fosse l’esito d’un’accuratissima indagine svolta da prestigiosi istituti di ricerca. VOX, l’Osservatorio Italiano sui Diritti, l’Università Statale e il team di ricerca ITsTIME dell’Università Cattolica di Milano, l’Università Aldo Moro di Bari e Sapienza Università di Roma, dal mese di marzo al mese di settembre del 2020, hanno raccolto 1.304.537 tweet e ne hanno analizzato e rielaborato il contenuto, così da sviluppare la quinta mappa dell’intolleranza. Le donne e, in particolare, la loro competenza in fatto di lavoro costituiscono il bersaglio principale degli ‘odiatori seriali’ della rete.

Il termine “odiatore”, di per sé, a nostro avviso, genera un certo imbarazzo psicosemantico. Sul piano morfologico-grammaticale, di fatto, è del tutto ammissibile, ma questo stesso criterio di ammissibilità istituisce una categoria sociale che, a propria volta, è difficile ad accettarsi. I suffissi in -tore modificano, in italiano, la parte tematico-radicale del termine in senso agentivo-strumentale. Di conseguenza, l’odiatore sarebbe un tizio che odia per mestiere, un po’ come animatore, sciatore, conciatore e così via. Il fatto è che, nel caso in specie, il sentimento di avversione diventa l’oggetto d’un’attività svolta con assiduità e impegno. Se, per di più, si aggiunge la serialità, allora si è costretti a rilevare non già e non solo un certo comportamento, ma anche e soprattutto una vera e propria classe della collettività per la quale l’odio è principio e fine dell’aggregazione. Gli stessi redattori degli enti di ricerca summenzionati, a tal proposito scrivono: “(…) La rilevazione per esempio dei picchi di odio indica una recrudescenza importante e un accanimento (rilevato anche dal numero di tweet) che parrebbero evidenziare un uso diverso dei social. Un uso, quasi più “professionale”, dove circoli e gruppi di hater concentrano la produzione e la diffusione di hate speech. Si odia in sintesi in modo diverso, più radicato e radicale (…)”.

Il 30 ottobre del 1997, con notevole lungimiranza, il Comitato dei Ministri degli Stati Membri si era espresso limpidamente in merito al cosiddetto hate speech: “(…) The term “hate speech” shall be understood as covering all forms of expression which spread, incite, promote or justify racial hatred, xenophobia, anti-Semitism or other forms of hatred based on intolerance, including: intolerance expressed by aggressive nationalism and ethnocentrism, discrimination and hostility against minorities, migrants and people of immigrant origin.” [RECOMMENDATION No. R (97) 20]

Molto probabilmente, all’epoca, nonostante la netta capacità previsionale mostrata in sede conciliare, nessuno immaginava che il fenomeno sarebbe diventato ingovernabile. In sostanza, quanto più il web si evolve, tano più l’ostilità si configura come un che di specialistico; ed era impossibile descrivere il ‘parossismo’ con tale acribia. Non a caso, secondo quanto emerge da un’altra indagine, quella svolta da SWG, il 68% degli utenti intervistati si dichiara rassegnato alla violenza verbale dei social network e ritiene addirittura che l’aggressività sia un nuovo modo di comunicare. Come abbiamo detto, nella bestiale classifica degli obiettivi degli haters, le donne occupano il primo posto con uno schiacciante e preoccupante vantaggio: il 49,91% di tweet negativi ricevuti contro il 18,45% degli ebrei, il 14,40% dei migranti, il 12,1% degli islamici, il 3,28% degli omosessuali e l’1,95% dei disabili. In pratica, non c’è paragone che regga.

Purtroppo, la percentuale di misoginia rivelata dagli account presi in esame rispecchia fedelmente e tragicamente quanto accade nella quotidianità. Durante un trimestre dell’indagine, s’è potuto documentare che 6.743.000 donne, tra i 16 e i 70 anni, hanno subito, almeno una volta nella vita, abusi fisici o sessuali, mentre il 25% delle donne, cioè una donna su quattro, viene molestato online e il 26% diventa vittima di stalking in seguito ad approcci digitali. Insomma, i numeri del fenomeno sono sconcertanti, vergognosi, avvilenti. Il report è una raccolta di orrori.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedersi perché, in una rubrica di grammatica sostenibile, l’autore scelga, all’improvviso, di trattare il tema dello hate speech e, nello stesso tempo, di approfondire quello della misoginia. La risposta al ragionevole e regolare quesito è immediata e chiara: il vettore dell’odio è costituito dalla lingua e dai linguaggi che in essa brutalmente si formano ad alterare la coesistenza digitale. Proprio primo appuntamento di questa rubrica, abbiamo fatto notare che la calunnia, l’oltraggio e l’inganno sono anch’essi modi dell’informazione, essendo l’informazione unilaterale ed espandendosi per lo più per adesione inferenziale. A coloro che vogliano saperne di più in merito suggeriamo di leggere Perché abbiamo bisogno di una grammatica sostenibile.

Dunque, tutto ha origine nella lingua. A tal proposito, nel progetto di ricerca ideato da VOX, si è sviluppato un altro focus, quello delle parole usate contro le donne e s’è evidenziato che gli insulti più in uso tra i numerosi in elenco sono indubbiamente “troia” e “puttana”, seguiti da “zoccola” e “vacca”. Da un primo livello d’analisi, si comprende che la donna viene attaccata nella propria sfera sessuale e nella propria moralità, come se l’offensore possedesse un archetipo del giudizio sulla presunta inferiorità morale e sessuale della vittima. Quand’anche non si tratti d’un giudizio, non si può fare a meno di riconoscere che la forma, anche solo per attitudine atavica, rinvia a quel tipo di condanna.

In considerazione del fatto che i tweet sono stati geolocalizzati, sappiamo che la misoginia è più diffusa al Nord che nel resto d’Italia. In realtà, il Settentrione si rivela campione d’odio non solo per la misoginia, ma anche per antisemitismo, islamofobia, xenofobia e disabilità. Puglia e Sicilia si distinguono solo per il primato in fatto di omofobia.

Un elemento linguistico-semantico può esserci di conforto, sebbene – bisogna ammetterlo – si tratti d’un sollievo parziale ed esclusivamente intellettuale: la lingua degli odiatori è priva di oggetti concreti, reali, manca di un legame con gli stati di cose. In sintesi e per dirla in un linguaggio scientifico, non ha un referente. Il turpiloquio rivolto alle donne, in specie sulla rete, dove – s’è detto – la parola, molto di frequente, è smisurata o dilatata, non rinvia ad alcuna entità extralinguistica in funzione della quale si possa costruire una qualche relazione. In linguistica, infatti, il referente è, per l’appunto, l’entità extralinguistica necessaria al processo di significazione che ci permette, come si apprende dalla lezione saussuriana, di associare un’immagine mentale, vale a dire un concetto, proprio del significato, con un’immagine acustica, cioè col significante o parte ‘materiale’ con la quale si propone il significato stesso. Se riesaminiamo l’oggetto degl’insulti, principalmente la competenza professionale, e le parolacce utilizzate, “troia”, “puttana”, “zoccola” e “vacca”, mettendoli a sistema, ci rendiamo conto che l’eventuale referente, ovverosia una certa condotta sessuale deprecabile – qualora esistesse –, non avrebbe alcun legame di pertinenza con le competenze della persona insultata.

In questo modo, si svuota perfino il presupposto della convenzione linguistica, che già Platone, nel Cratilo, aveva affrontato scrivendo che la parola è ὄργανον (òrganon, strumento) per designare le cose e non viceversa, come vorrebbero gli odiatori. Violando il principio di designazione, si perde anche l’opportunità di predicazione. Platone, infatti, distingue i nomi che fungono da soggetto (ὄνομα, ònoma) da quelli che fungono da verbo-predicato (ῥῆμα, rèma), ma l’uso disfunzionale dell’ ὄργανον rende insignificante la parola. Il tema, naturalmente, è stato affrontato più volte dai filosofi del linguaggio e dai linguisti; abbiamo voluto indicare Platone quale predecessore o, in qualche modo, primo teorico del settore.

In conclusione, l’odiatore sviluppa, a poco a poco, un linguaggio proiettivo-compensatorio che attinge ora dal patrimonio di devianza filogenetica ora dal proprio lacerante bisogno di occultare la propria mancanza di oggetti concreti. È molto probabile, infatti, che l’odiatore, oltre a non essere in grado di introdurre gli oggetti nel discorso, essendo privo della necessaria competenza linguistica, manchi di ‘cose’ anche nella propria esistenza. Il medium digitale, purtroppo, se non regolato adeguatamente, è molto pericoloso perché non sempre ‘sottopone’ gli utenti all’esame del referente. Basta pensare alla tormentosa vicenda delle fake news o a quella della disinformazione per intuire la portata del problema.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here