Là ci darem la mano,
là mi dirai di sì.
Vedi, non è lontano;
partiam, ben mio, da qui
L. Dal Ponte, Don Giovanni
Si può porre la questione ontologica per il web? Diversamente: vale la pena d’interrogarsi sull’essere del web? Certe domande, di primo acchito, paiono scandalose e irriverenti, oltre che aleatorie. In effetti, siamo consapevoli del rischio. I più potrebbero pure scansarci con la classica battutaccia cinematografica: – Non avete niente di meglio da fare che sprecare il vostro tempo con queste sciocchezze? -. Il confine è sottile e ci vuole un attimo a cadere in fallo. Pertanto, è bene precisare fin da ora – allo scopo di sgomberare il campo d’indagine da equivoci grossolani e seccanti pregiudizi – che l’ontologia e l’informatica furono avvicinate, per la prima volta, negli anni Novanta, periodo in cui gli studiosi definirono ontologia informatica una struttura di dati complessa e che include un insieme di concetti. Un software, secondo questa teorizzazione, rientrerebbe nell’ontologia informatica. Il movente funzionale e strumentale di questa scuola di pensiero è da ricercare nel web semantico, ovverosia in quel sistema di scambio tra uomo e macchina basato su informazioni e metadati. Ne abbiamo parlato ne Nel corteggiamento in chat il primo disastro digitale. A tal proposito, ricordiamo che il metadato non è altro che una combinazione di dati e significati.
Sulle prime, tuttavia, sembra che la summenzionata definizione sia stata data con leggerezza o, per lo meno, con un po’ di presunzione. Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza, non vogliamo né possiamo ‘coinvolgere’ appieno Parmenide, Platone, Aristotele, Hegel, Trendelenburg, Brentano, Husserl, Heidegger et alii, ma alcuni di loro dovranno essere per lo meno ‘disturbati’. Nello stesso tempo, con buon senso e disciplina, promettiamo di non andare alla ricerca di cause prime e beni sommi, nel rispetto del contesto di condivisione e del focus della lettura.
Prima di ogni cosa, cerchiamo di capire ciò che diciamo, quando usiamo il sostantivo ontologia. È fin troppo evidente che si tratta di un grecismo. La sua introduzione nella lingua di settore risale al XVII secolo, mentre la sua diffusione è merito del filosofo Christian Wolff, che scrisse un’opera intitolata proprio Philosophia prima, sive Ontologia. I grandi predecessori o fondatori avevano filosofato sull’essere, per così dire, senza farne dottrina esplicita, anche se Aristotele, in parte, avrebbe potuto meritare il primato. Ontologia è un termine composto da ὄντος (òntos), genitivo singolare del participio presente del verbo essere (εἶναι, èinai) ὤν, οὖσα, ὄν (on, oùsa, on), e da λόγος (lògos, discorso). Di conseguenza, tenuto conto del complemento d’argomento espresso dal genitivo (ὄντος), una traduzione semplice e diretta può essere discorso su ciò che è. Ogni qual volta in cui qualcosa entra a far parte del linguaggio, la questione si pone da sé, non solo quella del nostro incipit. Per certi aspetti, la messa in parola genera una condizione di irreversibilità del pensiero. Heidegger non ha avuto affatto torto nello scrivere che “il linguaggio è la casa dell’essere” (HEIDEGGER, M., 1947, Platons Lehre von der Wahrheit Brief über den Humanism, trad. it. di F. Volpi, 1995, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano, p. 32).
“C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze in particolare” (ARISTOTELE, Metafisica, 1003a, 32-34, a cura di G. Reale, 1993, Rusconi, Milano, p. 131)
Possiamo pure ipotizzare che il web sia nato o come medium o come contenitore; sappiamo che, a lungo, è stato qualcosa che abbiamo fatto esistere. Ne siamo stati creatori, artefici o – per usare un termine pertinente al gioco linguistico in corso – demiurghi. Se così è stato, ossia se da noi il web ha ricevuto esistenza, allora non è stato un ente, non è stato un essere. L’essere, infatti, per dirla con Parmenide, è e non può non essere. Le cose si stanno complicando parecchio, è vero, ma non si può rinunciare al risvolto della riflessione. Il web è ancora qualcosa che esiste grazie a noi oppure ha guadagnato ‘entità’, divenendo ciò che è e caratterizzandosi per una propria inattaccabile ontologia? Abbandonando per un attimo le asprezze linguistico-filosofiche, l’assenza di quale utente indebolirebbe le presunte comunità virtuali? Fatta eccezione per quei pochi personaggi di chiara fama, il cui volto solo in parte ha bisogno della rete, fino a che punto la ‘soggettività’ spetta più all’uomo che all’entità virtuale, che non siamo più in grado di definire?
L’inversione tra soggetto e oggetto, tra ente ed esistenza s’è ormai completata. E questa – si badi bene! – non è una profezia di sventura né si tratta del resoconto nostalgico e consolatorio del ‘nemico della macchina’.
I vantaggi della tecnologia sono innegabili, ma, forse, è arrivato davvero il momento di conciliare autenticamente filosofia, linguaggio e tecnologia in nome d’un’aggregazione reale e sostenibile, un’aggregazione che sia riconosciuta anzitutto come libertà di comunione. In questo senso, potrebbe essere utile rifarsi a Pareyson, il quale, rielaborando gli scritti di Schelling sulla libertà, propose di sostituire la libertà all’essere, giacché non si ha esistenza, fuorché nella libertà stessa (Cfr. Filosofia della libertà, 1989). Possiamo, dunque, avanzare il progetto d’una tecnologia umanistica come fondamento della sostenibilità digitale? Retorica da quattro soldi? Solo in apparenza! Quanto più gli utenti si convincono di occupare degli spazi e interpretare dei ruoli, che invece sono solamente delle prefigurazioni, tanto più il web si entifica a scapito del presunto soggetto, alienandolo, neutralizzandolo, annientandolo.
Quanti gruppi virtuosi ‘nascono’ sul web, senza mai ritrovarsi attorno allo stesso tavolo a gustare un pasto comune, ridere, ammiccare e – perché no? – litigare? Le trame dell’incontro sono per lo più rinviate alle chat amorose. Certo, per contro, sappiamo che sono tante le proficue alleanze generate dalla rete. Ma, forse, per questo, possiamo affermare di essere?
“(…) La realtà umana è il proprio superamento verso ciò che le manca (…) Non è qualcosa che esista subito (…) Così, l’avvenimento puro per cui la realtà umana sorge come presenza al mondo è percezione di sé stessa come propria mancanza. La realtà umana si percepisce come essere incompleto nella sua venuta all’esistenza. Essa si coglie come ciò che è in quanto non è (…) La realtà umana è superamento continuo verso una coincidenza con sé stessa che non è mai data” (SARTRE, J-P, 1943, L’être et le néant, trad. it. di G. del Bo, 1965, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, p. 128)
Il superamento della mancanza è, anzitutto, nell’incontro con l’altro, non con quell’altro che non è e non può essere in quanto trasfigurato da una concezione digitalizzata dell’esistenza. Di conseguenza, ogni atto che dilati oltremisura l’immagine mediatica riproduce la negazione dell’essere e allontana gli uomini gli uni dagli altri. Alla fine dell’arcinoto banchetto platonico, il Simposio, gl’illustri commensali, ad eccezione di Socrate, erano avvinazzati, manifestavano cioè una pretta condizione umana. Eros, infatti, è figlio di Pòros e Penìa, ricchezza e povertà: Eros include i modi dell’essere, è libero; il convito è luogo dell’essere.
“Prima di tutto è povero sempre, ed è tutt’altro che bello e delicato, come ritengono i più. Invece, è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperte e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada, e ciò perché ha la natura della madre, sempre accompagnato con povertà. Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di saggezza, pieno di risorse, ricercatore di sapienza per tutta la vita, straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista.” (PLATONE, Simposio, 203d-e, 115-116, a cura di G. Reale, 1993, Rusconi, Milano, p. 123)
Alla ricerca di un’immagine letteraria che completi, in qualche modo, l’itinerario dialettico tra l’uomo e il web o, più in generale, tra l’essere e l’esistere della realtà digitale, ci sovviene, d’impulso, Il castello di Kafka, dove l’agrimensore K. afferma di essere stato chiamato per una prestazione professionale, senza, però, che di fatto al castello se ne sappia alcunché. La nostra posizione iniziale al cospetto del mondo digitale è esattamente quella dell’agrimensore kafkiano: siamo in un mondo fatto da noi e per noi, ma che di noi non sa.
La rappresentazione narrativa, sin da subito straniata, è quella di un uomo – il nostro presunto aspirante interprete del web – che vuole raggiungere un luogo dal quale si attende accoglienza, ma che di fatto lo respinge, e di un castello – il web –, per raggiungere il quale si presentano al signor K. infinite strade; e i filosofi sanno bene che l’incapacità di ridurre il molteplice all’uno genera spaesamento.
Il vero fine d’un mondo digitale sostenibile è l’altro, da riconquistare come libertà dell’essere.
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