Mezzi digitali: il nostro è un ‘uccidere per essere’

La vita è tutta racchiusa nella differenza tra le parole e le opere. Sui social network, fino a che punto la scrittura di cui ci serviamo per costruire relazioni è reale e adeguata? Siamo davvero pronti a garantire che la scrittura ci condurrà all’opera?

Immagine distribuita da Pixabay

In ogni istinto, la verità ha preso la forma
di un’illusione per agire sulla volontà

G. Deleuze, Istinti e istituzioni

 

Il più delle volte, scambiamo il pudore col timore; dalla qual cosa tra origine un continuo bisogno di compensazione, proiezione e idolatria. Ci affanniamo a consumare parole, ignorando un fatto essenziale: la vita è tutta racchiusa nella differenza tra queste stesse parole e le opere. Finiamo col farci incantare da un tramonto o dal volo d’un gabbiano; non smettiamo d’esaltare l’enfasi di personaggi sovraesposti che, ex cathedra, ci propongono gl’idoli da venerare senza fatica, spesso elegantemente incorniciati e sapientemente introdotti; pregustiamo l’enfasi bacchica di amori allegri e occasionali, ma trascuriamo la mano che, a lungo, ci ha versato l’acqua, la bocca da cui sono uscite preghiere di conforto, i compagni di ventura che ci hanno protetti nel buio e senza clamore.

Se volessimo una prova di questa nostra terribile e angosciosa iniquità, basterebbe osservare la sorte di tutti coloro che sono finiti in croce o sopra un rogo: abbandonati, soli, quantunque circondati da gruppuscoli d’indistinti seguaci.

“Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: – Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? -” Mt 26, 40

Nei manuali di storia, spesso, non si racconta il più rappresentativo degli episodi non solo della prima guerra d’indipendenza, ma anche e soprattutto della gloria e dello spirito umano. Nella primavera del 1848, le fortezze di Peschiera del Garda, Mantova, Legnago e Verona costituivano i vertici di un quadrilatero difensivo costruito dagli austriaci. Proprio all’uscita da Mantova, l’esercito piemontese guidato da Carlo Alberto di Savoia era stato aggirato da quello del generale Josef Radetzky. Per evitare la disfatta italiana uno sparuto gruppo di studenti delle università di Siena e Pisa, armato di sole pietre, si fece massacrare pur di consentire a Carlo Alberto la manovra d’inversione.

“Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purgatorio, I, 70-72)

Dante avversa fieramente il suicidio; la qual cosa ci è nota anche – ma non solo – dal canto di Pier della Vigna (Inferno, XIII). Eppure, per Catone uticense fa una singolare eccezione: il cercatore di libertà è esente dal severo giudizio umano e religioso. Questo aspetto, molto di frequente, passa inosservato o, per lo meno, viene fatto rientrare in una sorta di modulo dantesco. Invece, ci dà la vera misura dello scrittore e del suo animo: qualcosa va molto oltre la dottrina di fede e la scrittura.

Insomma, la questione, per noi che ‘c’incontriamo’, ‘discutiamo’, ‘lavoriamo’, ‘c’innamoriamo’ et cetera sui social network, è la seguente: fino a che punto la scrittura – l’insieme dei segni? – di cui ci serviamo per costruire relazioni è reale e adeguata? Siamo davvero pronti a garantire che la scrittura ci condurrà all’opera? In effetti, qualcuno potrebbe obiettare che, specie nell’ambito digitale, lo scrivere non deve, per forza, diventare un fare. Se così fosse, però, ci ritroveremmo sotto gli occhi un terribile mucchio di pensieri inutili, improduttivi e riscrivibili, dato che pochi di noi hanno una tale acutezza di pensiero da meritare l’attenzione della collettività, laddove quasi tutti tentiamo disperatamente di occupare uno spazio e ricevere consenso.

Sui social networkfino a che punto la scrittura – l’insieme dei segni? – di cui ci serviamo per costruire relazioni è reale e adeguata? Siamo davvero pronti a garantire che la scrittura ci condurrà all’opera?

Si pensi alla povertà e al modo in cui se ne parla! Siamo tutti affranti, per esempio, per la misera condizione dei bambini della fascia subsahariana, specie se li vediamo in foto, ma quanti di noi si recano sul posto a dar loro sostegno? Sì, lo ammettiamo: l’esempio, per certi aspetti, è paradossale: un mondo di manifestazioni francescane sarebbe, forse, invivibile e paralizzato. Il fatto è che gli uomini differiscono gli uni dagli altri non già per un numero elevato di qualità e competenze, bensì per il coraggio e la capacità – almeno una volta al giorno – di rinunciare a sé stessi. Sono da ammirare, a questo punto, i mistici, il cui presupposto è quello apofatico: l’uomo si riferisce a un’entità superiore dicendo ciò che essa non è e null’altro. In greco, l’aggettivo ἀποϕατικός (apophatikòs) vuol dire, per l’appunto, negativo, è un deverbale e proviene da ἀπόϕημι (apòphemi, dire di no, rifiutare). I mistici, dunque, sono coloro che rinunciano a dire qualcosa, eliminando tutti i predicati relazionali.

La scrittura è, anzitutto, uno slittamento di senso, una sospensione dell’esistenza, poiché, con essa, l’autore, in qualche modo, tenta di sovrapporsi ai fatti, che, naturalmente, sono immodificabili, si dispone all’attesa di riscontro, come se questo fosse un abbraccio consolatorio, e, talvolta, si espone al rischio dell’annientamento. Siamo tutti consapevoli dell’immodificabilità di ciò che accade, ma non resistiamo al bisogno di raccontarla. Siamo fin troppo abituati a dare un nome alle cose e, di racconto in racconto, ci consumiamo, un po’ come la brace lasciata ad ardere in una tranquilla sera agostana.

Si badi bene: qualsiasi scrittura, anche il più stupido dei post che scriviamo! La designazione, anche inconscia, di un destinatario, d’una qualche entità che, pure nel silenzio e nell’assenza, ci dà la misura del nostro potere o della nostra impotenza è il principio della scomposizione della personalità dello scrivente. Questi, nell’accingersi a scrivere, non ha più un volto proprio, dovendo accettare d’assumere il volto di chi lo legge o di non avere affatto un volto, se nessuno posa gli occhi su di lui.

Rilke, ne I quaderni di Malte Laurids Brigge, ebbe una superba intuizione: “Bisognerebbe saper attendere, raccogliere, per una vita intera e possibilmente lunga, senso e dolcezza, e poi, proprio alla fine, si potrebbero forse scrivere dieci righe valide.” Nonostante il “bisognerebbe” e la via mistico-negativa, non attese neppure lui, sopraffatto dal bisogno atavico-adamitico di nominare le cose, nell’illusoria pratica di sottrarre materia alla natura. Cosa dire, allora, della sorte di chi, in preda agli slanci del cuore o dell’intelletto, ha rivolto, ingenuamente, parole d’eterna alleanza a chi, per converso, di queste stesse parole ha fatto solo effimera esperienza? Nessun ricordo è ‘leale’, quantunque utile: semplicemente perché il ricordo dev’essere continuamente raccontato, riproponendosi la scena dell’annientamento. Raccontarlo a sé stessi, tacendolo al mondo, non cambia le cose. Troppi poeti o, in generale, troppi autori hanno scelto di narrare ogni particolare del proprio disagio, finendo coll’essere travolti dalla narrazione stessa.

Lo scrivente puro è condannato, prima o poi, a una sorta di esilio: ammirato, amato, mai vissuto appieno. Certe vite richiedono ciò che all’uomo ripugna: la separazione dalla vita stessa. Vogliamo provare a negare il dolore che Dickinson, Nietzsche, Celan, Tasso, Saba, Pavese e tanti altri furono costretti a sopportare? La natura problematica della riflessione, il dilemma, per così dire, consiste nel fatto che, da circa quindici anni, tutto è scrittura, quantunque accompagnato da immagini e video, ed è per lo meno doveroso chiedersi se l’attività che svolgiamo abbia un senso, un fine o se sia destinata a una sorta di macello digitale.

La natura problematica della riflessione consiste nel fatto che, da circa quindici anni, tutto è scrittura, quantunque accompagnato da immagini e video, ed è per lo meno doveroso chiedersi se l’attività che svolgiamo abbia un senso

A causa della smania d’esserci e nella gioia della partecipazione, siamo immemori proprio di persone e cose, siamo talmente sicuri delle nostre azioni, tale è il nostro impeto che non vediamo neppure un corpo riverso sul ciglio del sentiero che percorriamo e, se lo vediamo, non ne siamo partecipi. Il nostro è un insopprimibile ‘uccidere per essere’ e, in ciò, lasciamo maturare la pianta della nostra prossima insoddisfazione. Sulle prime, le sue foglie sembrano rilucere, rigogliose, pure nella penombra d’una qualche stanzetta metropolitana. Di fatto, ‘uccidiamo’ per distrazione e nel nome di principi che riteniamo giusti e universali: ne abbiamo il diritto. Quando ci rendiamo conto, nel tempo, in un tempo che abbiamo fatto scorrere quasi goliardicamente, che il cadavere incontrato lungo la strada è parte di noi, allora è troppo tardi per leggere certe poesie e trarne conforto.

Al contrario, nel disagio, cerchiamo dei nomi e, spesso, dei volti che diano un senso a ciò di cui siamo privi: la ricerca, il più delle volte, è vana a causa della propria natura ideale. In talune circostanze, infatti, volgiamo lo sguardo consolatorio alle categorie, a una sorta di ontologia dalla quale siamo, improvvisamente, rapiti e vessati: Dio, il grande amore, l’esistenza e, insieme, la fuga da tutto questo.

Diversamente, avremmo solo bisogno di ritrovarci tra persone e cose che, purtroppo, non ci sono mai state. Lo sforzo di memoria a riempimento o a riscatto del nulla che ci possiede, però, è sempre superiore alle nostre capacità di spingerci oltre il malessere.

In questi frangenti, il web ci ripresenta puntualmente i portatori di verità, ma non c’è uomo più pericoloso e letale di chi annunci, di colpo, di voler dire tutta la verità. L’uomo che si convince di potersi redimere improvvisamente mettendo in scena la tragicommedia d’una propria qualsivoglia conversione o che crede di poter beneficare l’altro con delle parole ‘magiche’, come se queste potessero conquistare l’unica forma di trasparenza possibile, in realtà, gode inconsciamente nel torturare una vittima designata. Anzitutto, affermare di voler dire tutta la verità implica l’aver sempre – o quasi – mentito: considerazione banale, ma inevitabile. In secondo luogo, dobbiamo chiederci quale sia l’affidabilità di chi non ha fatto altro che mentire. In terzo luogo, anche ammettendo la buona fede di questo sadico camuffato da francescano, resterebbe il problema della verità in quanto tale: sarebbe la ‘sua’ verità, che per noi potrebbe equivalere propriamente a una menzogna. Ci parlerà di Dio o della morale? Oppure farà di tutto per nascondere il proprio benessere dietro le figure della coscienza teatrale? Il sangue lascia una traccia eterna e insostituibile; la parola, invece, tranne che sia quella d’un’elegia o un sonetto e l’elegia e il sonetto non siano stati scritti da chicchessia, può essere la premessa dei più grandi rinnegamenti.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here