Di Smart Working e ritrosia al cambiamento: perché una trasformazione (sostenibile) è necessaria

Nell'attuale dibattito pubblico in tema di smart working, sono di fatto scomparsi alcuni temi di fondamentale importanza legati alla sua applicazione e alla sostenibilità, in tutte le sue dimensioni: vediamo perché è però importante parlarne, nella Vision di Alfredo Ferrante

Immagine distribuita da Hippopx con licenza CC0

Tra le notizie che entrano nel gran calderone del dibattito relativo allo smart working (o lavoro agile) sembrano non aver guadagnato l’onore della cronaca i dati presentati da Legambiente e IPSOS lo scorso mese di ottobre, nel monitoraggio sui cambiamenti, gli atteggiamenti e le abitudini di mobilità degli italiani dell’Osservatorio Stili Mobilità. In particolare, si rileva, un numero maggiore di persone rispetto al periodo pre-Covid utilizza oggi auto private, preferendole al trasporto pubblico, anche per il permanere del timore di assembramenti. Inevitabile il collegamento all’utilizzo del lavoro da remoto in un’ottica di decongestionamento delle strade e quale mezzo di contrasto al contagio, sperimentato assai severamente durante i mesi più difficili della pandemia.

Il dato, inoltre, aiuta ad allargare il dibattito sui luoghi e le modalità dello svolgimento della prestazione lavorativa che, soprattutto dopo l’entrata in vigore del decreto dell’8 ottobre del Ministro per la pubblica amministrazione, Renato Brunetta, che richiedeva il ritorno subitaneo negli uffici da parte dei dipendenti pubblici, ha subito una decisa e avvilente semplificazione. Come è stato fatto recentemente notare, a fronte di una pressante campagna circa gli impatti negativi del lavoro agile sulla sopravvivenza dei centri storici delle città e degli esercizi della ristorazione, sono di fatto scomparsi dalla discussione pubblica alcuni temi di fondamentale importanza che sono legati all’applicazione dell’istituto dello smart working e alle diverse dimensioni della sostenibilità: a titolo di esempio, l’alleggerimento del traffico cittadino, la diminuzione dell’inquinamento dell’aria, la migliore fruibilità del sistema di trasporto pubblico, la possibilità per lavoratrici e lavoratori di riarticolare in modo diverso il proprio tempo quotidiano per la famiglia e gli affetti. O, ancora, i possibili risparmi per le organizzazioni nel ripensare presenza e distribuzione non giornaliera del personale nei luoghi di lavoro e nel corso del tempo (il caso delle banche europee è assai rilevante).

Perché proprio la sostenibilità, ci si potrà chiedere. Se ne ripercorriamo in estrema sintesi il significato, così come riportato dalla Treccani, ovvero quella funzione che “implica un benessere (ambientale, sociale, economico) costante e preferibilmente crescente e la prospettiva di lasciare alle generazioni future una qualità della vita non inferiore a quella attuale”, è intuitivo comprendere come il lavoro da remoto sia una leva certamente non trascurabile a tali fini. Queste dimensioni, tuttavia, sembrano essere state sacrificate, potrebbe dirsi, sull’altare della ripartenza e della (condivisa, beninteso) necessità che il Paese si lasci alle spalle i terribili mesi della pandemia che hanno segnato i destini economici e sociali di tante persone. Il cortocircuito sembra palesarsi nella dichiarata inconciliabilità, da parte di taluni, della ripresa resiliente (per usare un termine à la page) con la possibilità di riarticolare, per pezzi importanti del settore pubblico e privato, l’organizzazione del lavoro su basi diverse. Le criticità emerse nella fase più dura dell’emergenza sanitaria si sono certamente assommate a stress e disagio da parte dei lavoratori, con perdita di socialità e fenomeni di sovraccarico lavorativo: tuttavia, come ha ricordato Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in apertura di un recente convegno, tali esternalità sono state superficialmente ascritte allo smart working, anziché alla situazione pandemica e al lavoro forzato da casa.

Il tema che pare governare un dibattito assai polarizzato è quello della sostanziale sfiducia nelle organizzazioni, pubbliche e private, e nella loro capacità di ripensarsi secondo matrici alternative, ricercando nuovi equilibri che internalizzino, in chiave strategica, le tre dimensioni ambientali, economiche e sociali

Il tema che pare governare un dibattito assai polarizzato è allora quello della sostanziale sfiducia nelle organizzazioni, pubbliche e private, e nella loro capacità di ripensarsi secondo matrici alternative, ricercando nuovi equilibri che internalizzino, in chiave strategica, le tre dimensioni ambientali, economiche e sociali. Si registra, in altre parole, il timore – da parte della politica, di molte organizzazioni, delle stesse opinioni pubbliche – di affrontare un percorso che suscita un irrazionale paura dell’ignoto. Eppure lo status quo ante non sembrava così appetibile, sia in termini di efficacia del lavoro (come vuole la vulgata specialmente in relazione alle amministrazioni pubbliche), sia con riferimento alla invocata conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sia, infine, per quel che riguarda, gli effetti sull’ecosistema. Da questo punto vista, non possono non destare preoccupazione le parole di Alok Sharma, presidente della Cop26 appena terminata, che ha definito la conclusione del summit “una fragile vittoria”. Se si dovesse dar volto alle resistenze di un utilizzo maturo del lavoro da remoto, lasciando alle singole componenti delle organizzazioni la responsabilità di autogestirsi a seconda delle specifiche esigenze della struttura e tenendo in considerazioni anche quelle avanzate dalle persone che di quella struttura fanno parte, la mancanza di immaginazione sembra la chiave di volta. È una colpa grave, che testimonia un marcato strabismo, una tensione irrisolta fra aspirazioni all’innovazione e al miglioramento delle condizioni attuali e il terrore di abbandonare il tepore della familiarità del mondo conosciuto. È, quasi, la dichiarata impossibilità di andare oltre lo specchio, di infrangere l’immagine che ci restituisce e alla quale viene conferita, chissà perché, una aura di sempiterna immodificabilità, a dispetto della sua evidente contingenza dal punto di vista della Storia.

Lo smart working non è e non sarà la panacea dei mali della nostra società, è bene evidenziarlo. La diffidenza che esso suscita e che viene sbandierata, tuttavia, è una chiara testimonianza della ritrosia al cambiamento che esso porta con sé

Lo smart working non è e non sarà la panacea dei mali della nostra società, è bene evidenziarlo. La diffidenza che esso suscita e che viene sbandierata, tuttavia, è una chiara testimonianza della ritrosia al cambiamento che esso porta con sé. Vengono in mente, in proposito, le parole di Tyler Durden, inquietante protagonista di “Fight Club”, film di David Fincher del 1999, tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk: “Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca”. Ecco, 22 anni dopo e 20 mesi dopo l’inizio di una epidemia su scala planetaria, quel monito riacquista peso specifico, dando nuovo significato alle aspettative di tutti coloro che hanno apprezzato, pure nelle severe ristrettezze delle limitazioni imposte dalle autorità sanitarie, cambiamenti inaspettati e gratificanti, che hanno spesso incrementato autonomia e responsabilità e fatto evidentemente presa sulla dimensione valoriale interna, mettendo a nudo, in molti casi, il disallineamento con i valori dell’organizzazione di appartenenza. Non è una caso che, soprattutto negli Stati Uniti (che, naturalmente, hanno un mercato del lavoro assai diverso da quello italiano e europeo), prenda piede quella che è stata chiamata la fuga dal lavoro (o the great resignation): la pandemia ha spinto molti a dare nuova importanza alla vita familiare rispetto al lavoro e, con quella che Massimo Gaggi sul Corriere della sera ha efficacemente definito epifania pandemica, si chiede di restare a lavorare in remoto, si va in pensione anticipata o ci si dimette.

Quel che servirebbe, per citare Federico Butera su “Il Mulino”, sono veri e propri cantieri di cambiamento, lavorando sui risultati dell’esperimento smart working e trarne le dovute lezioni, così da non “perdere l’opportunità di comprendere e orientare un esperimento organizzativo di portata non inferiore all’avvento del taylor-fordismo e della lean production”. Le condizioni non sembrano, al momento, ottimali: il ritorno alla scrivania è il leitmotiv del discorso pubblico contingente e, soprattutto per quel che riguarda l’amministrazione pubblica, è lecito nutrire dubbi circa il futuro. Come ha acutamente osservato Beppe Severgnini, stare insieme è fondamentale e un luogo di lavoro sano è una forma di intelligenza collettiva. Eppure, “poter lavorare anche da lontano è stata una rivoluzione, imposta dalla pandemia. Per arrivare dove siamo, in tempi normali, ci sarebbero voluti anni […]. Il virus ci ha costretto a fare di necessità virtù. Cerchiamo perciò di essere virtuosi, non sadici”. E, val la pena aggiungere: sostenibili.

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