Lavoro agile e obiettivi di sviluppo sostenibile: istruzione di qualità (SDG 4)

Per molti docenti la pandemia ha significato abbandonare modalità familiari di insegnamento e trovarsi a gestire la didattica a distanza (DAD) in un clima di emergenza, spesso in condizioni di incertezza. L'insegnamento da remoto, però, possiede potenzialità che possono e devono essere sperimentate

Immagine distribuita da Max Pixel con licenza CC0

L’obiettivo numero quattro dell’Agenda 2030 dell’ONU si occupa, fra i diversi obiettivi di sviluppo sostenibile (sustainable development goal, SDGs), di istruzione di qualità (quality education) come mezzo per sostenere la mobilità socioeconomica e chiave per sfuggire ai meccanismi di povertà. I dati internazionali del periodo antecedente alla pandemia da Covid-19 mostravano l’urgenza dell’impegno del complesso dei Paesi membri delle Nazioni Unite: basti ricordare che più di 200 milioni di bambini erano a rischio di dispersione scolastica e che si stimava che solo 3 adolescenti su 5 potessero completare il proprio percorso di istruzione secondaria superiore entro il 2030, mentre ben 617 milioni di giovani sul pianeta non possedevano le conoscenze di basi in alfabetizzazione e matematica. Con l’avvento della crisi sanitaria ed epidemiologica, nel 2020, la chiusura delle scuole ha comportato, soprattutto nelle aree più povere, l’interruzione del percorso educativo, con danni rilevanti a favore dei minori più vulnerabili e con conseguenze ancora da soppesare appieno non solo dal punto di vista educativo, ma anche psicologico e cognitivo a causa delle misure di contenimento del virus.

Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, il Rapporto ASviS per il 2021 registra una situazione di forte preoccupazione, posto che i test Invalsi 2021 evidenziano che il 44% degli studenti che ha terminato la scuola secondaria di secondo grado non raggiunge il livello minimo nelle competenze di italiano e il 51% quello in matematica, raccomandando: a) il recupero delle competenze cognitive e socio-emotive dell’attuale generazione di studenti, soprattutto quelli più fragili, fortemente penalizzati dalla pandemia; b) un intervento specifico sulle cause strutturali che minano la qualità dell’istruzione (come, ad esempio, l’ampliamento di tempo scuola di qualità per tutti, una migliore e più aggiornata formazione dei docenti, sicurezza e innovazione per l’edilizia scolastica).

In un tale quadro di significativa preoccupazione, perché parlare di lavoro agile (smart working) o da remoto a proposito della necessità, prevista dall’Agenda, di garantire una istruzione di qualità? Le severe limitazioni dovute alla necessità di frenare il contagio hanno reso evidente, ove ve ne fosse mai stato bisogno, l’importanza della presenza nelle classi, ponendo l’accento sulle diverse caratteristiche dello sviluppo cognitivo, affettivo e psicomotorio per i/le più piccoli/e e l’opportunità di scandire chiaramente le fasi di apprendimento e regolare i ritmi di vita degli studenti più grandi fra vita in classe e studio a casa. Si è parlato, in questo senso, della importanza delle comunità di apprendimento, seppure, in questa fase, ancora viziate da regimi di distanziamento interpersonale. Ebbene, volgendo lo sguardo all’altra componente della comunità, per moltissimi docenti la pandemia ha significato abbandonare repentinamente modalità familiari e sperimentate di insegnamento e trovarsi, da remoto, a gestire la didattica a distanza (DAD) in un clima di emergenza: la classe totalmente virtuale ha così compresso la ricchezza della complessità degli scambi del gruppo in una interazione limitata sonoro/visivo per molti inedito. La DAD, è stato rilevato, pur impegnando il docente ad un’elevata formazione nell’uso di strumenti ICT, ha reso più difficile intercettare i bisogni emotivi e psicologici dell’alunno, calando con difficoltà la complessità dei contenuti in una dimensione spazio-temporale adeguata all’evoluzione del soggetto e alla tempistica di consolidamento del sapere. Insomma: se l’insegnante in lavoro agile d’emergenza ha rappresentato un vero e proprio baluardo della scuola in pandemia, ha spesso navigato in acque insicure e, talvolta, a vista, sebbene non sia mancato, in Italia, il supporto delle competenti autorità.

Eppure, se proviamo a guardare più in là della fase emergenziale, lo smart working da parte del corpo docente sembra avere solide dimensioni di compatibilità col raggiungimento dell’obiettivo di una istruzione di qualità, almeno in forma complementare. È possibile, cioè, trarre lezioni importanti dall’esperienza degli ultimi due anni ove si tenga presente che la DAD, o e-learning, realtà ben presente per quanto riguarda il settore universitario (si pensi alle cosiddette università telematiche e, in ogni caso, all’utilizzo che ne è stato fatto dalle università tradizionali anche prima della pandemia), non può essere realizzata semplicemente traslando le modalità di insegnamento tipiche della presenza nell’ambiente digitale. Va chiarito, a tale proposito, che esistono fondamentali differenze tra didattica digitale o a distanza e didattica digitale integrata: la prima identifica un’attività formativa, originariamente prevista in presenza, che viene riadattata per essere svolta a distanza, come spesso accaduto nel corso dell’emergenza epidemiologica; con la seconda, invece, si intende ripensare le modalità di gestione dell’attività didattica ed educativa, ad esempio attraverso la progettazione dei contenuti e la scelta delle strumentazioni digitali migliori per il coinvolgimento degli studenti e la qualità della loro esperienza formativa. Analogamente a quanto accaduto e accade per le altre attività per le quali è possibile operare in lavoro agile, nel settore pubblico come in quello privato, è dunque indispensabile un approccio che rimetta in gioco l’esistente, riadattando e rimodulando percorsi conosciuti e sperimentati.

Secondo i risultati di un questionario somministrato da parte del Politecnico di Milano a docenti in lavoro agile emergenziale nel 2020, coloro che hanno affrontato meglio l’esperienza di insegnamento in lockdown erano quegli insegnanti che avevano già sviluppato le proprie competenze in materia di innovazione digitale prima della pandemia, che sono riusciti a mettere in piedi relazioni positive e cooperative con i colleghi e che si trovavano in scuole con dirigenti scolastici “capacitanti”, che hanno, cioè, chiaramente indicato le linee di azione, conducendo e coordinando la comunità scolastica nella direzione indicata. Alla luce delle evidenze emerse, secondo i ricercatori di PoliMi, dovrebbero in futuro esser tenuti presenti alcuni punti fermi: una adeguata e continuativa formazione dei docenti (digitale e relativa alla formulazione adeguata dei contentuti), pensata per periodi ordinari e legata alla necessità di progettazione del cambiamento; l’importanza del modello cooperativo fra insegnanti per imparare collettivamente gli uni dagli altri in un quadro reticolare; il ruolo di supporto e indirizzo della capacità manageriale ed organizzativa dei dirigenti scolastici; la consapevolezza, infine, che l’innovazione didattica non implica necessariamente la realizzazione di attività esclusivamente da remoto, ma anche l’utilizzo ibrido di strumenti e opportunità tecnologiche nel quadro della didattica in presenza.

Insomma, l’insegnamento da remoto, che per la scuola è stato sinora prevalentemente implementato nelle sue forme talvolta grezze e necessitate per l’emergenza pandemica, possiede ampi spazi di sviluppo che possono e devono essere sperimentati per coglierne appieno le potenzialità, dando nuova e adeguata rilevanza alla dimensione dell’autonomia e riconquista di senso dell’insegnamento stesso. Se si guarda ai diversi target dell’obiettivo 4 dell’Agenda, peraltro, un utilizzo adeguato di istruzione ibrida a determinate condizioni può avere un ruolo importante, ad esempio, per far sì che tutti i giovani e gran parte degli adulti, sia uomini che donne, possiedano un sufficiente livello di alfabetizzazione e capacità di calcolo (4.6) o incidere sulla disponibilità di insegnanti qualificati, anche grazie alla cooperazione internazionale, per la loro attività di formazione negli stati in via di sviluppo, specialmente nei paesi meno sviluppati e i piccoli stati insulari (4.C). Va tenuto in debito conto, tuttavia, l’imponente ostacolo del digital divide nei Paesi in via di sviluppo.

L’insegnamento in presenza rimane, senza dubbio, almeno per le bambine e i bambini, la modalità privilegiata di apprendimento e per sviluppare la relazione docente/discente: non casualmente i primi due target dell’obiettivo 4 evidenziano l’importanza dell’istruzione primaria e del percorso pre-primario. E non vanno, inoltre, trascurati tutti quegli aspetti socio-relazionali, di cui si è già fatto cenno, per l’istruzione secondaria e secondaria superiore. Altro pilastro resta, infine, quello della assoluta necessità che nessuna e nessuno resti indietro: come ha ricordato, fra gli altri, Save the Children, una particolare attenzione va riservata alle attività di didattica a distanza con i bambini BES (Bisogni Educativi Speciali) e DSA (Disturbi specifici dell’Apprendimento). Secondo talune analisi, tuttavia, il sistema di istruzione italiana si è confrontato con la crisi del Covid e con la sfida digitale che esso ha comportato con una preparazione insufficiente, almeno a leggere i dati PISA e Talis dell’OCSE: ciò richiede uno sforzo di visione e di ripensamento che, alla luce delle lezioni apprese, può indirizzarsi a forme integrate di insegnamento presenza/remoto, facendo anche leva, nel caso italiano, sulle ingenti risorse a disposizione previste nel PNRR.

Facebook Comments

Previous article5 Startup per l’inclusione sociale
Next article3 Start-up per la lotta al cambiamento climatico
Dirigente dello Stato proveniente dalla esperienza dei corsi-concorso della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA), è in servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Laureato in Scienze Politiche, si è specializzato in studi europei ed internazionali ed è rappresentante per l’Italia in diversi tavoli in materia di politiche sociali presso la Commissione europea, il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite. Presidente del Comitato disabilità del Consiglio d'Europa dal 2016 al 2018. Già Presidente dell’associazione degli ex allievi della SNA, ha un dottorato in public management ed è da anni impegnato sul tema della riforma della P.A. Appassionato di vino e di fumetti, ha tre figliocci.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here