5 domande da mamma sulla scuola che verrà

E’ già il 14 settembre e io no, vorrei dire citando Bergonzoni. Io no perché, pur leggendo, informandomi, chiedendo, tanti sono i dubbi sulla scuola che verrà e che riaprirà le porte ai miei come a tanti ragazzi italiani, piccini e grandicelli.

Io no perché in questo periodo, che mi auguravo fosse utilizzato per organizzare al meglio la ripresa integrando anche le tanto demonizzate o santificate tecnologie digitali, ho sentito più parlare di banchi a rotelle che non di metodologie nuove e strumenti necessari. Io no perché di quella “comunità educante” tanto decantata e ripresa anche nel manifesto della scuola che non si ferma non riesco a trovare traccia nelle barricate alzate dagli insegnanti incolpati (spesso ingiustamente) di aver percepito lo stipendio senza aver fatto abbastanza, in quelle alzate dai dirigenti, tutti con il metro in tasca a misurare le distanze consapevoli che sarà difficile farle rispettare in ogni momento, e nei muri eretti da noi genitori che, preoccupandoci più di copiare e incollare una bufala su Facebook piuttosto che di capire, siamo già pronti a incolpare docente, preside, bidello perché nostro figlio non è tutelato al 100%, magari dopo averlo lasciato aggregarsi in spiagge affollate per tutta l’estate (ma il COVID d’estate era in ferie, no?).

Io no perché la scuola raccontata per # non mi piace e soprattutto quelli della #milanononsiferma memoria ormai mi fanno letteralmente terrore.

Il 14 settembre è arrivato, e a me piacerebbe poter sapere poche cose, semplici, alle quali però Mario Google non riesce a rispondere.

Quale significato hanno le telecamere o le altre diavolerie digitali installate nelle aule per trasmettere in streaming la lezione in presenza?

Da tempo, anche i non esperti sanno che la teledidattica, ovvero guardare una persona in televisione o parimenti dal video di un PC che ci racconta una cosa, è una delle cose che, al pari del contare le pecore, riesce a conciliarci di più il sonno. E se questo avviene con gli adulti (e avviene, perché a me è capitato nel corso di alcuni webinar di notare qualche occhio un po’ spento), figuriamoci con i ragazzi, avvezzi alle storie di Instagram o ai video da 30 secondi di TikTok.

Può essere quindi una soluzione pensare di risolvere il sovraffollamento delle classi semplicemente “trasmettendo in diretta da” quello che un po’ di compagni fanno in presenza? Siamo davvero convinti che fare lezione in presenza sia la stessa cosa del farla a distanza? E qui molti diranno di sì perché di insegnanti che, magari non correttamente formati visto lo stato di emergenza, hanno scambiato la telecamera del proprio PC per il gruppo classe vivo e presente ce ne sono stati molti.

Perché abbiamo ascoltato e sentito tutti, tranne gli studenti prima di pianificare la ripresa?

Volendo informarmi sulla DAD, ho cercato qualche dato che potesse farmi capire come era andata in generale, senza basarmi solo sull’esperienza dei miei figli, l’esperienza didattica a distanza in emergenza. Non significativa, certo. Perché in emergenza. Ma pur sempre una esperienza importante dalla quale si poteva apprendere qualcosa. Cercando, ho trovato statistiche sulla percezione di insegnanti, dirigenti e genitori. Poco, se non con ricerche sporadiche, sulle impressioni dei ragazzi. Ma i fruitori della DAD non sono stati loro? Perché non chiedere cosa hanno apprezzato di quei momenti di presenza, seppure “virtuale”, dei propri insegnanti? Perché non indagare sul cosa ha funzionato e cosa no? Forse perché sindacalmente scorretto visto che, come ha scritto qualche tempo fa Ernesto Galli della Loggia in un editoriale, gli insegnanti non sarebbero così d’accordo nel farsi valutare? Se lo avesse fatto la scuola dei miei figli io ne sarei stata felice (e credo pure gli insegnanti).

Perché si parla tanto di attenzione alla raccolta dei dati anche nelle linee guida DID e poi nel sito del MIUR sono consigliate solo tre piattaforme proprietarie?

La domanda per me, attivista del software libero, è di quelle prioritarie. D’istinto l’avrei fatta subito, provocando l’abbandono del campo di lettura di molti. Per tanti altri genitori (e magari diversi insegnanti) questa potrebbe essere considerata una “fisima” come quella di Burioni rispetto alla gestione privacy dell’app Immuni. Per me è importante perché credo che crescere bene i ragazzi sia anche educarli e abituarli a scegliere valutando ciò che serve insieme alle caratteristiche di un certo strumento. Dopodiché si può scegliere anche un software o una piattaforma proprietaria (o di moda), ma solo se si sono valutate anche soluzioni libere, aperte, open source, che garantiscano apertura della conoscenza. Mi sono chiesta, quindi, ma perché far passare il concetto che solo grandi multinazionali possono garantire affidabilità nell’erogazione di un servizio per la DAD? Perché non guardare a esperienze come quella di GARR? Perché non fare comunità (vera, non commerciale, ma di intenti) per sperimentare soluzioni efficaci e che possano tutelare i dati dei ragazzi? Perché rinunciare alla libertà in favore della comodità sempre, anche a emergenza sospesa per ferie?

Se parliamo tanto di sostenibilità e guardiamo alla scuola, perché dobbiamo dare la priorità all’acquisto di nuovi banchi monoposto destinati domani a marcire in qualche magazzino?

Quando frequentavo la scuola io i banchi erano monoposto. Di legno, con le gambette in metallo, come quelli consegnati in questi giorni alle scuole dall’esercito (il perché impegnare l’esercito quando le consegne a casa nostra le fanno i fornitori non l’ho ben capito, ma sicuramente è un problema mio). Questi vecchi banchi, pieni di scritte e di buchi praticati con le matite appuntite sulla formica, sono stati poi accatastati in qualche magazzino polveroso di qualche comune per fare spazio ai nuovi banchi, a due posti. Sempre di legno con le gambette in metallo come quelli che usava la mia mamma nel dopoguerra. Mi chiedo: ma era davvero necessario questo ingente investimento? Non si riusciva a individuare una soluzione differente, magari più complessa, che non fosse questa? E se eravamo convinti della innovatività della soluzione dei banchi monoposto con le ruote (individuati come strumenti di didattica innovativa), perché non comprare solo e soltanto quelli ignorando chi polemizzava magari senza sapere?

Perché non impariamo mai?

Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare una bella persona, Leonardo Cenci. Un combattente, pieno di ottimismo, presidente dell’associazione Avanti tutta!. Una volta mi disse: “io corro e partecipo alla maratona, nonostante il cancro. Perché o vinco o imparo”. Una frase che mi è tornata in mente più volte leggendo qualche commento stizzito di qualche insegnante, genitore o dirigente scolastico che, l’un contro l’altro armati, nel leggere una critica che viene rivolta loro dialogano solo con l’intendo di chiudere una riflessione o un dibattito portando a casa la ragione e pensando, quindi, di aver vinto. Senza ragionare sul fatto che possiamo vincere solo quando riusciamo a riconoscere i nostri errori e imparare da quelli. Cosa che avremmo potuto fare se avessimo voluto sfruttare questi mesi estivi individuando gli errori fatti nella DAD per ripartire proprio da quelli. E imparare.

Il 14, comunque, è già qui. E io, da mamma, speriamo che me la cavo.

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