Combattere pur di combattere: la scrittura al servizio della guerra

La presenza online è garantita spesso anche in assenza di una precisa volontà che la caratterizzi e, in ciò stesso, è una mancanza. Questo deficit si amplia in occasione di eventi come sono le pandemie e le guerre, in cui l'atto di scrivere diventa una specie di ruminazione, e ciò che segue alla scrittura è solo altra scrittura. In alcuni casi, però, la storia della letteratura si è rivelata bizzarra in tal senso

Immagine distribuita da PxHere con licenza CC0

(…) E ciascuno morendo scagli il giavellotto per l’ultima volta.

Infatti, è cosa onorevole e magnifica per un uomo combattere

per la sua terra e per i figli e per la sposa legittima (…)

Callino, fr. 1 West

Premessa

L’homo ‘digitalis’ è, per natura e principio, mancante. Si badi bene: non assente, bensì mancante! È essenziale tenere conto di questa differenza, giacché, di fatto, la sua presenza è ubiquitaria e ipertrofica, quasi ossessiva. Le ‘connessioni’, che, sulle prime, erano una conquista fisica, un legame tra terminali e persone, adesso, invece, rappresentano un’estensione antropologica, un’entità autonoma che fagocita i propri elementi costitutivi, pur imponendo loro una reazione costante. Qualcosa del genere è assimilabile all’inerzia, cosicché ognuno è obbligato, anche inconsciamente, a partecipare al rito del commento, del giudizio e, per lo più, della supposizione. La nostra presenza, dunque, è garantita, anche in assenza d’una precisa volontà che la caratterizzi e, in ciò stesso, è una mancanza. Tale deficit si amplia in occasione di fatti sensazionali, quali sono, chiaramente, le pandemie e le guerre perché la distanza tra il predicatore morale e l’attore sociale è sempre incolmabile. L’atto di scrivere diventa una specie di ruminazione e ciò che segue alla scrittura è solo altra scrittura. La storia della letteratura, tuttavia, in alcuni casi, s’è rivelata alquanto bizzarra in tal senso.

Questione

A una battaglia ne segue un’altra. Poi, ancora una e un’altra ancora, fino all’indistinzione tra le cause, ma anche all’estenuazione: combattere, pur di combattere; versare sangue per appagamento; cosicché la ripetizione del segno linguistico (“altra”, “ancora”), nella ricostruzione narrativa, non è altro che un tentativo di riprodurre fedelmente la sequenza degli eventi. Si lavora, dunque, affinché la scrittura diventi opera di corrispondenza, pur sapendo che il vero e insuperabile limite consiste sempre e unicamente nel non essere mai in grado di passare per lo meno in rassegna i caduti. Sì, i morti: coloro che scompaiono prematuramente e il cui volto, residuo d’esistenza tra le macerie, è annientato dalla storia, che finisce spesso col serbare solamente grandi moti, trionfali o meno, e grandi ricorrenze. Gli storici, quale che sia il loro sforzo, non potranno mai contrastare adeguatamente lo strapotere dei nomi, non altrimenti che se questi rappresentassero un invisibile primus movens, un’imperscrutabile forza della natura, un agente esterno a tutto e da cui ogni autore è inconsapevolmente attratto: se a un uomo o a un fatto non puoi dare un nome, esso, semplicemente, è pressoché inesistente.

Talora, tuttavia, accade qualcosa d’inspiegabile o, diversamente, qualcosa che il lettore, in genere, non s’aspetta proprio perché è quasi impossibile avere aspettative del genere: non già – intendiamoci! – a vantaggio degl’innominabili defunti, bensì come combinazione di fattori umani e sociali che non esitiamo a definire sorprendenti, se riuniti nella stessa vicenda. Un uomo, particolarmente abile nella scrittura, tanto da essere ricordato in tutte le antologie della letteratura greca, allievo di Socrate, sente spasmodicamente il bisogno d’una guerra, non esita a seguire dappertutto il richiamo delle armi e si fa biografo di sé stesso. Gl’intellettuali che, nel tempo, hanno preso parte a qualche avvenimento bellico sono tanti, per carità. Foscolo fu un capitano combattente: aveva il diritto di raccontare il dolore della sconfitta; Vittorio Sereni, un esempio del nostro tempo, oltre che poeta, fu un ufficiale di fanteria, prese parte alla seconda guerra mondiale e conobbe la dimensione della prigionia; Ungaretti, più noto tra gli studenti, fu membro del 19° reggimento di fanteria della brigata “Brescia”, durante la prima guerra mondiale; e così pure tanti altri.

Il caso di Senofonte, però, è sostanzialmente diverso. Ateniese nato nel demo di Erchia nel V secolo a.C., cresciuto intellettualmente con Socrate, come abbiamo anticipato, egli si trasformò presto in un instancabile combattente, a tal punto da entrare in un corpo militare speciale di mille cavalieri ai quali i Trenta Tiranni del regime oligarchico instauratosi alla fine della guerra del Peloponneso (404 a.C.) concessero non solo i diritti politici, ma anche l’autorizzazione a portare con sé delle armi. Si narra che costoro fossero addirittura brutali e capaci di efferatezze. Luciano Canfora, con riferimento al supporto da loro dato all’oligarchia, nel descriverli, usa i seguenti termini: “oltranzisti”, “tra i loro più accaniti e sanguinari sostenitori” (CANFORA, L., 2001, p. 317). La cosiddetta tirannide, di fatto, durò poco; di conseguenza, coloro che s’erano mostrati oltranzisti, accaniti e sanguinari, naturalmente, già nel 403 a.C. non erano più graditi in patria. Senofonte e i suoi non si persero d’animo e si riqualificarono immediatamente come mercenari. In quel periodo, Prosseno, in Attica e in Beozia, reclutava volontari per conto di Ciro, il cui obbiettivo era quello di deporre il fratello Artaserse e impossessarsi del trono di Persia; il che non aveva alcun legame con le vicende greche. Senofonte, di fatto, si rivolse a Socrate, prima di decidere, ma ne trascurò sbrigativamente il consiglio. Molto probabilmente, Socrate lo esortò a consultare Apollo delfico, ma l’allievo furbescamente aggirò l’ostacolo chiedendo all’oracolo solo “a quali dei sacrificare per fare un buon viaggio” (CANFORA, L., 2001, p. 319).

Senofonte, dunque, dopo aver letto la lettera di Prosseno, si consulta con l’ateniese Socrate sull’opportunità di partire. Socrate, temendo che l’amicizia con Ciro potesse esporlo ad accuse da parte della città, perché si pensava che Ciro avesse aiutato con entusiasmo gli spartani nella guerra contro Atene, consiglia a Senofonte di recarsi a Delfi e di consultare il dio riguardo a questo viaggio. Senofonte andò a Delfi e chiese ad Apollo a quale dio dovesse offrire sacrifici e preghiere per compiere nel modo migliore e più sicuro il viaggio (SENOFONTE, Anabasi, III, 1, 4-8, a cura di F. Bevilacqua, 2002, UTET, Torino, pp. 388-391).

L’esito della battaglia di Cunassa (401 a.C.), a circa cento chilometri a nord di Babilonia, nell’attuale Iran meridionale, fu molto deludente per i mercenari greci. Ciro fu ucciso durante lo scontro e il loro campo venne saccheggiato.

E arrivarono alle loro tende verso l’ora di cena. Tale fu la conclusione di quella giornata. Scoprirono allora che la maggior parte dei loro averi era stata portata via e così pure tutto ciò che vi era da mangiare o da bere; anche i carri pieni di farina e di vino, che Ciro aveva predisposto per rifornire i Greci nell’eventualità che una grave carestia colpisse l’esercito (si trattava, pare, di quattrocento carri), anche questi carri erano stati razziati dagli uomini del re (SENOFONTE, Anabasi, I, 10, 18, op. cit., pp. 332-333).

La compagine greca, della quale lo stesso Senofonte divenne stratego, iniziò quindi la ritirata. Fu d’un subito un’intrapresa molto dura: occorreva raggiungere Trapezunte, sul Mar Nero, dove Chirisofo avrebbe dovuto procurare le navi per il ritorno, ma avevano davanti a sé la Mesopotamia e l’Armenia, le cui alte quote, d’inverno, sono sempre caratterizzate da gelate e venti molto freddi. A questi fenomeni naturali si aggiunse presto l’ostilità dei popoli che incontravano lungo il proprio cammino. Tale durezza lascerebbe presagire che, una volta arrivati a destinazione, i protagonisti fossero stanchi di combattere e bisognosi di quiete, desiderosi di tornare a casa. Invece, il gruppo si divise, giacché molti di loro, tra cui lo stesso Senofonte, volevano ancora misurarsi con la guerra, come fossero invasati. Fu così che, dopo un’altra fitta serie di disavventure e scontri, che qui non riportiamo per esigenze di sintesi, risposero alla chiamata di un principe tracio, Seuthes, arruolandosi ancora una volta al soldo d’uno straniero, che aveva promesso loro laute ricompense. D’altronde, a ben vedere, era questo il loro mestiere. Seuthes ebbe successo nella riconquista del proprio regno, ma, non essendo in grado di mantenere le promesse fatte, offrì ai militari greci delle mandrie in cambio del denaro. Il malcontento ebbe la meglio sugli uomini di Senofonte, sempre meno numerosi e sempre più deboli, oltre che privi di risorse.

Qui, il racconto si fa davvero incredibile, inaudito, quasi insostenibile. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, che la fonte delle campagne militari di Senofonte è Senofonte stesso, del quale, opportunamente, abbiamo citato, già in due circostanze, l’Anabasi. La Tracia non fu l’ultima tappa di questa saga di sangue e gloria. Un comandante spartano in procinto di combattere contro Farnabazo, invitò i ‘senofontei’ a unirsi a lui nell’intrapresa, ottenendo un’adesione pronta ed entusiastica. Leggiamo a tal proposito l’autorevolissimo documento di Luciano Canfora:

Dalla Tracia l’Armata, alquanto malconcia e ridotta di numero, torna in Asia, e a Pergamo passa agli ordini di Tibrone (CANFORA, L., 2001, Storia della letteratura greca, Laterza, Bari, p. 322).

In teoria, non stiamo parlando di un condottiero; ciò che descriviamo non è uno Pseudo-Alessandro, un soldato delle cui gesta s’è innamorato un qualsivoglia storico. In pratica, però, si tratta più di un condottiero, d’un’indole pseudo-alessandrina e d’un soldato girovago che d’uno scrittore. La sua scrittura, quantunque ricca, elegante e dotata di buon ritmo figurativo era totalmente al servizio della guerra, tanto che Canfora stesso lo definisce spesso “giornalista” proprio nelle pagine da noi citate. Il suo, tuttavia, non si configura come un servizio d’informazione nuda e cruda. L’ἀνάβασις (anàbasis: da ἀναβαίνω, anabàino, salgo) di Ciro, da un punto di vista morfologico-semantico è una salita o marcia verso l’interno – e fin qui potrebbe essere recuperata la cronaca genuina, anche se, materialmente, il percorso non fu corrispondente al titolo (Catabasi, anziché Anabasi, forse, sarebbe stato un titolo più corretto: κατάβασις, katàbasisdiscesa) –, ma, nella sostanza, Senofonte è un superbo e irriducibile esaltatore del proprio valore.

Canfora ritiene che l’Anabasi sia la “lunga, implicita, patriottica apologia di un condannato all’esilio che ha trovato scampo, e cercato gloria, nella vita pericolosa del mercenario” (Ibid., p. 322). Se questo è vero, allora è probabile che la sua intera esistenza sia stata afflitta da cocenti frustrazioni compensate con impareggiabile audacia. Di fatto, però, sebbene egli fosse inviso ai democratici, l’esilio lo raggiunse nel pieno delle ‘guerre asiatiche’ e non possiamo dire che ebbe cura del suggerimento di Socrate. Sembra verosimile, allora, che Senofonte avesse una vera e propria vocazione per la guerra e fosse, prima, un guerriero e, solo dopo, uno scrittore. Continuò a ‘guerreggiare’, infatti, dal 396 al 394 al servizio di Agesilao, nella campagna contro Tissaferne. Ma poco prima s’era schierato con Dercillida. E poco dopo, ancora con Agesilao, contro gli stessi ateniesi, nella battaglia di Coronea.

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