Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande
L. Ariosto, XXXIV, 71, Orlando furioso
Non c’è santità che tenga. Nell’era digitale, chiunque, pure il Papa, può finire nel tritacarne dei social network in un battito di ciglia e subire l’ironia, ora tagliente e offensiva ora sana e costruttiva, dell’utente medio, figura capace spesso d’inspiegabili sortite e imprese inaudite: nascosto nel proprio cantuccio virtuale, alla ricerca d’amorfi e indeterminati, oltre che improduttivi, consensi, questi si distingue per arguzia e tempestività; insegue la cronaca e i suoi personaggi, dei quali conosce pure le minuzie e, senza sbagliare un colpo, ne mette a nudo le debolezze. Il suo linguaggio, in genere, è semplice, ma incisivo ed efficace, quasi sempre paratattico, la punteggiatura minimalista, le frasi ellittiche, i sostantivi mai ricercati. Di fatto, si rivolge a un grande gruppo d’amici, cosicché il suo registro risulta vincente o, diversamente, ben accolto: ciascuno degli apparenti e indistinti destinatari lo sente come proprio, come se non esistesse un confine linguistico-emotivo tra gli uni e gli altri.
L’umorista di turno ne sa una più del diavolo, come si suol dire, ma nessuno sa con precisione di cosa si occupi. Non è un comico, giacché non s’è mai visto sulle scene, allo stesso modo in cui non rappresenta alcuna categoria sociale; pure il suo volto è coperto dal mistero; è un personaggio, null’altro. In poche parole, non è. E proprio questo suo non essere, questo suo appartenere a una terra di mezzo in cui ognuno può diventare tutto e il contrario di tutto, gli fa guadagnare successo: quanto più aperto e incondizionato diventa il suo spazio, tanto più ampia e dinamica si fa la sua cerchia. In realtà, non ha neppure bisogno di un volto. Mostra le spalle e il pubblico non se ne accorge. I punti esclamativi e le emoticon fanno buona compagnia e hanno la meglio sullo sguardo. Ogni aspetto della presunta funzione di teatrante, per il compimento della quale un vero attore s’affatica, qui, viene messo in discussione con una certa religiosità, poiché, qui, appunto, nessun sottile o penetrante senso di colpa prende il posto della goliardia. Non c’è mai la febbrile attesa dell’evento; nessuno riceve il becco d’un quattrino: ciò che accade potrebbe anche non accadere; nessuno se ne darebbe pena o se ne sentirebbe umiliato.
Il Santo Padre risponde alle domande d’un intervistatore, un cantante sul palco di Sanremo non rispetta il copione e si fionda sul pubblico, un politico urla in tv et similia: le occasioni sono tutte propizie, una vale l’altra; non si deve dimostrare alcunché come presupposto valido. Ridere e deridere a più non posso: questo è il primo e unico impegno umano, tanto da passare per intelligenti e colti. Stando così le cose, tuttavia, il codice delle relazioni comunicative rimane un codice irrelato e privo di destinatari e funzioni, specie se assumiamo il processo della comunicazione come generato da una mente e già finito nella nascita.
Umberto Eco, in Kant e l’ornitorinco, scrive: “Curiosa percezione. Se c’è inferenza nella percezione stessa, allora c’è fallibilismo” (1997, Bompiani, Milano, p. 77). È un bel guaio per l’umorista, dato che, secondo Eco, non può esistere un’idea generale di qualcosa: foglia, cane o albero. Esiste una visione della cosa per inferenze che prendono forma in un giudizio. Ma, così, è evidente che ognuno va per la propria strada. Ognuno capisce ciò che vuole capire e porta avanti ciò che crede di aver capito. Altro che comunicazione o primato della comunicazione digitale! Il prototipo dell’atto linguistico medio è simile al gesto di un bagnante che lancia una pietra per vederla rimbalzare sull’acqua, ma colpisce un altro bagnante appena emerso dall’apnea. Al danno causato si presta poca attenzione perché alle parole si dà poco peso e il loro effetto deve svanire quanto prima.
D’altronde, Emil Cioran è stato profetico: “Portare un nome vuol dire rivendicare un modo esatto di crollare” (1956, La tentation d’exister, trad. it. di L. Colasanti e C. Laurenti, 1984, La tentazione di esistere, Adelphi, Milano, p. 12). L’esacerbarsi dell’irrisione può anche generare la formazione dei movimenti di difesa, parate di predicatori dell’integralismo morale che, per eccesso di buone maniere e ‘reattivismo’, finiscono per lo più coll’annientare i propri buoni propositi. Ne consegue che l’effetto del loro intervento si annulla nel tempo stesso in cui s’annulla l’irrisione. Insomma, l’ingresso di questo teatro è sempre libero. L’uscita di sicurezza non c’è. I posti liberi sono solo in prima fila. La seconda fila non esiste; e così pure la terza, la quarta et cetera. Il genere è quello della commedia, ma – si badi bene! – la regia è quella degli spettatori. La durata non va mai oltre qualche giorno o qualche inesorabile tweet. Ogni azione, che si tenta di descrivere e rappresentare in pochi caratteri, è rifatta sulla tecnica del bullet time: si può solo inventare, ma lo si può fare nei minimi particolari; c’è un ‘dentro’ da cui si può addirittura immaginare di sentire respirare qualcuno o scorgere l’ebetudine del suo volto; c’è un ‘fuori’ da cui si può inquadrare il soggetto all’incalcolabile, ma rassicurante, velocità di tutti i giorni, in cui né il respiro né il volto di qualcuno sono percepibili.
Si va sulla luna col cavallo alato, ma non si conoscono Astolfo e l’ippogrifo: la regola aurea consiste proprio nel non sapere, non già quale condizione di disagio, bensì come forma d’estraneità radicale. Se, anche solo per un istante, qualcuno fosse sfiorato dal suono di “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto (…)”, la sua figura sarebbe immediatamente, pur se, talora, indirettamente, oggetto d’ostracismo, in quanto priva di requisiti intellettuali o, semplicemente, curriculari. Il fuoco non può mica nascere da concetti, ma da sospiri e pianti. L’occhio è pigro e salta facilmente l’antica favola. Ogni morfema dev’essere carico di certezze, produrre allegria.
I latini, invece, erano tutt’altro che scontati e vaghi con le proprie forme grammaticali. In latino, la domanda “estne frater tuus intus?”, che, immediatamente traducibile, significa “tuo fratello è in casa?”, richiede una risposta, per positiva o negativa che sia, che riporti almeno il morfema principale della domanda. Per la qual cosa, in caso affermativo, diremmo: “estne”; come a dire: è in casa. Non abbiamo a che fare con alcunché di problematico, ma è interessante notare, seguendo l’insegnamento di autori e grammatici, che la particella enclitica –ne regge l’intero pondus dell’interrogativa. Ciò si giustifica col fatto che tale particella, anticamente, veniva usata come negazione, almeno fino a un indebolimento semantico che ha storicizzato la sua emblematica doppia natura: essa si esprime nel dubbio. Ora, una risposta positiva latina, per eleganza e accuratezza, non può prescindere dalla funzione del dubbio, deve ripetere l’elemento funzionale; dunque: estne; è in casa.
Ce ne rendiamo conto: non è molto social, come non sarebbe social portare come altro esempio un perfetto resultativo greco e marcare la differenza tra un vero processo di significazione-comunicazione e il nichilismo implicito della semantica digitale dominante. E se chiedessimo all’utente medio di comunicare l’esperienza del nulla? Ovvero? Se gli chiedessimo cioè di rinunciare all’oggetto, alla vittima sacrificale o, per converso, all’idolo e di parlare di tutto, fuorché dell’altro? Senza l’incantevole sensazione di pienezza, di completezza, il desiderio verrebbe meno, si lascerebbe impedire, congestionare, si muterebbe in autoaggressione, errando di approssimazione in approssimazione verso un compimento irraggiungibile. Il desiderio di vita digitale imploderebbe e si farebbe ascoltare, prima, come fantasia coatta e demoniaca, in seguito, come desiderio di morte: il rifiuto del nulla porta difilati al nulla.
“Se effettivamente fu la posizione del superstite nei riguardi del defunto a indurre per prima l’uomo primitivo alla riflessione, a costringerlo a cedere parte della propria onnipotenza agli spiriti e a rinunciare a parte della sua libertà d’azione, possiamo dire che queste creazioni culturali segnino il primo riconoscimento dell’ἀνάγκη (anànke,necessità) che si contrappone al narcisismo dell’uomo. L’uomo primitivo s’inchinerebbe alla sovranità della morte allo stesso modo in cui sembra rifiutarla” (Freud, S., 1913, Totem und Tabu, trad. it. di C. Balducci, C. Galasi e D. Agostino, 2004, Totem e Tabù, in Freud Opere 1905-1921, Newton & Compton Editori, Roma, p. 608)
Se una foglia è verde, bisogna dire che è verde e null’altro. Guai a dire qualcosa di diverso, a meno di volere essere esclusi dai giochi.
L’elezione di un totem, presso i primitivi, com’è noto, non si svolge per stabilire dei confini socio-categoriali, ma avviene nel rispetto di quella paura del nulla-morte che non deve mai trasformarsi per loro in angoscia quotidiana. Il totem o la figura totemica, animale o capotribù, istituisce il dominio della protezione dall’angoscia; dalla qual cosa comprendiamo facilmente l’imponente tabula di prescrizioni, nota come tabù, cui bisogna attendere scrupolosamente per rimanere a contatto con l’altro, senza pretendere di sostituirsi del tutto ad esso.
Facebook Comments