Social network come strumenti di elaborazione del malessere collettivo

Nella società odierna, i social network fanno sì che non ci sia nulla che non possa essere messo in scena. Le conseguenze per il futuro possono essere tragiche, come descritte dal romanzo di Delphine de Vigan, ma anche positive: per esempio, usandoli come strategia per elaborare e lenire il malessere sociale

Immagine distribuita da Piqsels

Abbiamo avuto l’opportunità di cambiare il mondo, per poi accontentarci dei canali di televendite

Stephen King, On Writing

 

Come già illustrato nelle riflessioni sull’inconscio digitale, abbiamo portato sul continente digitale da noi creato anche il nostro inconscio, che ha trovato in questa terra di confine onlife, tra sogno e realtà, fertile terreno di coltura. Sul digitale abbiamo riversato tutte le nostre proiezioni, da quelle più pure a quelle più abiette, così che da paradiso il digitale è divenuto un nuovo paradiso perduto, sul quale non abbiamo più il controllo. “Non solo [l’Io] non è padrone in casa propria” come ci aveva dolorosamente rivelato Freud, ma non lo è più nemmeno nel digitale, la creazione dell’uomo per antonomasia andata incontro a un’inconsapevole trasformazione. Il digitale è divenuto infatti, oltre che straordinario promotore di scambio, conoscenza, innovazione anche propagatore di quelle tendenze alla chiusura mentale, al riduzionismo e alla disinformazione che voleva sconfiggere.

Lo illustra, meglio di ogni saggio, l’ultimo romanzo di Delphine De Vigan, “Tutto per i bambini”, che mostra l’impatto dei social sulla vita familiare e restituisce il ritratto di una società in cui non c’è niente che non possa essere messo in scena, a partire dai bambini. Se “le porte dell’inferno” erano state aperte dai reality televisivi, dalla “possibilità di passare dalla posizione di chi guarda a quella di chi è guardato”, “Internet e i social … hanno decuplicato lo spettro del possibile” consentendo a tutti di “mostrarsi fuori, dentro, sotto tutti gli aspetti” e, in tal modo, di esaudire “il desiderio di essere visti, riconosciuti, ammirati” senza alcun bisogno di “produrre, creare, inventare” (pag. 30). Mélanie, la protagonista, o almeno quella che si crede tale, è cresciuta nella provincia francese con i reality, ipnotizzata dalle loro illusioni di celebrità. Inizialmente entusiasta per essere stata scelta per partecipare ad uno show televisivo, è altrettanto delusa e narcisisticamente ferita quando la sua partecipazione si rivela una catastrofe. Si rifarà però anni dopo creando su YouTube un canale di grandissimo successo, Happy Récré, interramente dedicato alla rappresentazione della vita quotidiana dei suoi due figli Sam di 8 anni e Kim di 6. Il prodotto costruito da Mélanie e da suo marito Bruno non solo incontra il consenso entusiastico di milioni di iscritti ma porta sponsor, promozioni e campagne. “I bambini si prestano alle richieste delle aziende che passano per il filtro materno” (Le Monde de Livres). Tutto sembra funzionare alla perfezione fino a quando Kim scompare. La polizia avvia le ricerche e una poliziotta, Clara, agli antipodi per educazione e formazione, si chiede chi sia davvero Mélanie. Le supposizioni di Clara sono riflessioni che valgono per l’intera nostra società.

“Chi è questa donna?… Non si poteva ignorare il bisogno di riconoscimento che traspariva da quelle immagini. Mélanie Claux voleva essere guardata, seguita, amata. La sua famiglia era un’opera, una realizzazione e i suoi figli una specie di prolungamento di se stessa. La valanga di emoticon che riceveva ogni volta che postava un’immagine, i complimenti per il suo abbigliamento per la pettinatura per il trucco probabilmente riempivano un vuoto o una noia. Oggi i cuori, i like, gli applausi virtuali erano diventati il suo motore, la sua ragione di vita: una sorta di ritorno sull’investimento di natura emotiva e affettiva di cui non poteva più fare a meno… 

Oppure Mélanie Claux era una formidabile donna d’affari… condividere era un investimento. Condividere i segreti, i marchi, gli aneddoti: era quella la ricetta del successo…. 

E se si stesse sbagliando … Mélanie Claux non era un’eccezione… era come gli altri, come quelle decine di adulti che avevano creato canali a nome dei propri figli e non si ponevano minimamente il problema dell’esposizione o della sovra esposizione e non erano gli unici. Bastava guardare le piattaforme di condivisione per capire che il concetto di privacy, in generale, era profondamente cambiato. Le frontiere tra il dentro il fuori erano scomparse da tempo. Quel mettere in scena se stessa, la propria famiglia e la propria quotidianità, quella ricerca del like, non li aveva inventati Mélanie. Oggi erano un nuovo modo di vivere e di stare al mondo. … 

Quella donna non era né una vittima un aguzzino: apparteneva al suo tempo. Un tempo in cui era normale essere filmati ancora prima di nascere…. Oggi chiunque poteva immaginare che la sua vita fosse degna dell’interesse altrui, averne la dimostrazione. Chiunque poteva considerarsi una personalità, una celebrità e comportarsi come tale. In fondo YouTube e Instagram avevano realizzato il sogno di ogni adolescente: essere amato, essere seguito, avere dei fan e non era mai troppo tardi per approfittarne. Melanie era una donna del suo tempo. Semplicemente. Per esistere bisognava accumulare le visualizzazioni, i like e le Stories. … Ognuno era diventato il gestore della propria esibizione, che era diventata un elemento indispensabile alla realizzazione di sé.” (Pag 204-207) 

Lo sguardo della scrittrice si allarga allora da Mélanie Claux all’intera società, perché, come sostiene Clara, “Non si trattava di sapere chi fosse Mélanie Claux. Si trattava di sapere che cosa tollerasse l’epoca attuale, che cosa incoraggiasse, e addirittura celebrasse”. Non per giudicare, condannare, ma per comprendere. Così come Clara si sottrae al giudizio per capire e giungere alla soluzione del caso, anche la scrittrice illustra con genialità artistica e precisione psicoanalitica l’inestricabile groviglio sentimentale che si sviluppa tra i membri di quella famiglia fino ad avvolgerli in una ragnatela digitale senza via d’uscita. Con i più raffinati strumenti della scrittura Delphine de Vigan ci fa sentire quanto i nostri impulsi e le nostre emozioni influenzino il nostro rapporto con il digitale stesso e viceversa fino ad immaginare quali potrebbero essere le conseguenze per il nostro futuro. 

Proprio perché il nostro futuro lo immaginiamo e lo scriviamo ora. Può essere quello tragico di Mélanie, Sam e Kim ma può anche essere quello di social network utilizzati come luoghi di scambio, educazione, formazione, sostegno, addirittura di terapia. Già da tempo poi i social media e in particolare TW sono impiegati come rilevatori psico-sociali, nella promozione della salute in generale e in particolare di quella psicologica. L’impiego dei social media è stato positivamente valutato in caso ad es. di disastri ambientali, quali il terremoto di Haiti, per favorire il contatto tra i sopravvissuti ed incrementarne la resilienza. 

Mentre sono alle prese con quest’articolo leggo che Instagram ha deciso di rendere concreta la possibilità di nominare dei moderatori all’interno della Instagram Live, scegliendo un utente specifico, oppure uno da una lista suggerita da Instagram. Mi sovviene allora la mia vecchia idea di utilizzare Twitter per una specie di gruppo BalintScrivevo (nel lontano 2014) “Posto infatti che un social media come Twitter possa essere teoricamente inteso come un gruppo (enorme), con miriadi di sottogruppi e la TL come (la più piccola) unità gruppale dotata di coerenza, le dinamiche psicologiche che si sviluppano al suo interno sono ben lontane dall’essere regolate solo dalla volontà razionale dei singoli individui o gruppi di influenza. Esse sono piuttosto influenzate da complessi processi emotivi che … si possono trasmettere per contagio emotivo senza che le persone ne abbiano consapevolezza.” Facendo correre la fantasia, mi domandavo proponevo già allora di utilizzare Twitter, o altro social network, non tanto come una terapia di gruppo ma come una strategia per elaborare e lenire il malessere sociale legato a specifici eventi traumatici. Si potrebbe infatti immaginare un gruppo digitale in cui discutere un tema o meglio il rapporto dei partecipanti con quel tema (ad es. l’attuale guerra in Ucraina). Tutti i partecipanti potrebbero esprimere i loro vissuti e le loro emozioni dunque le preoccupazioni, paure, angosce, rabbia, risentimento, speranza etc che, sotto la guida di un conduttore, verrebbero sottoposte ad un processo di scambio, confronto, discussione, elaborazione emotiva e cognitiva. Non si tratta di decidere chi abbia torto o ragione, quali siano le informazione false e quelle corrette ma di scambiare ed elaborare i propri vissuti per tornare a vivere più serenamente il proprio quotidiano. Decisivi per la riuscita del gruppo sono la libera espressione dei propri vissuti e delle proprie reazioni emotive in un clima di libertà concettuale e di tolleranza ma anche la comprensione razionale dei processi emotivi per consentirne la consapevole presa di coscienza e il distanziamento. Solo passando attraverso queste due fasi e oscillando tra le stesse riusciamo infatti a identificarci con l’altro mantenendo la consapevolezza della nostra identità, ad aprirci al mondo emozionale altrui senza precipitare in frettolosi giudizi o agiti, a superare il pericolo dell’inconsapevole contagio emotivo e a giungere alla mentalizzazione. Naturalmente sarebbe necessario che a condurre tali gruppi fossero persone che, oltre ad una competenza digitale, abbiano una specifica formazione psicologica e psicoterapeutica, in particolare di tipo gruppale. Moderatori dunque con fondate capacità psicoterapeutiche non per fare terapia di gruppo ma per impiegare i social network come utili strumenti di elaborazione e di alleviamento del malessere collettivo.

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