Ombre e luci della blockchain e dei cryptoassets

Tecnologie rivoluzionarie che richiedono però qualche riflessione (in particolare dopo il crash di queste settimane)

Immagine distribuita da Pixabay

In questi giorni il tema della blockchain, delle criptovalute e dei cosiddetti “cryptoassets” (cioè tutti quei beni digitali legati a un procedimento crittografico che li rende in qualche modo unici e tracciabili) è diventato mainstream e non proprio per merito di notizie piacevoli. Si è infatti verificato quello che gli utenti twitter hanno chiamato #cryptocrash; un primo sentore di esplosione della bolla che aveva visto una crescita esponenziale proprio durante la passata stagione invernale. Non è detto che sia una definitiva debacle, d’altronde la volatilità è altissima in entrambe le direzioni e non è detto che presto i valori tornino a crescere.

Non si capisce bene se sia stato il naturale (e per certi versi prevedibile) scoppio di qualcosa che si era gonfiato troppo velocemente, o se ci sia stato qualche elemento scatenante; secondo alcuni potrebbero aver contribuito alcune manovre di importanti istituzioni pubbliche (alcuni governi, alcuni banche centrali), secondo altri è tutto legato a doppio filo con un momento di grande difficoltà del settore tecnologico, secondo altri ancora potrebbe essere stata una forte dichiarazione del magnate Warrent Buffett a instillare sfiducia negli investitori. Ciò che è certo è che la botta si è sentita (e si sta sentendo ancora) e alcune persone hanno davvero perso gran parte dei loro risparmi (soldi veri, e non soldi del Monopoli); dunque qualche riflessione forse è il caso di farla.

Blockchain: tecnologia rivoluzionaria; però…

Prima però lasciatemi chiarire una cosa, così sgombriamo subito il campo dalla percezione infondata che io sia contrario a questi fenomeni per una sorta di posizione ideologica conservatrice. Niente di più falso. La blockchain e il mondo crypto ad essa connessa mi affascinano un sacco e li trovo uno dei fenomeni più innovativi e rivoluzionari del decennio; sono però molto perplesso e preoccupato per alcune derive che stanno prendendo. Anche qui come è sempre stato, si conferma l’assioma secondo cui il problema non è mai la tecnologia in sé ma il modo in cui essa viene utilizzata e sfruttata.

La blockchain, o più propriamente tutte le tecnologie a registri distribuiti (DLT, Distributed Ledger Technology), hanno un immenso potenziale e si prestano a innumerevoli applicazioni che contribuiscono a digitalizzare i processi, disintermediare i rapporti, in generale innovare e migliorare la vita delle persone. Il problema è pensare che di per sé possa soppiantare principi e meccanismi che il diritto e l’economia hanno impiegato secoli a sedimentare e consolidare.

In un recente articolo di David A Banks per The Guardian si legge: «I cripto-evangelisti promettono che un ecosistema finanziario digitale decentralizzato è una buona cosa, perché a differenza degli stati e delle loro banche centrali, la tecnologia è incorruttibile. Immaginano la tecnologia come un sostituto delle istituzioni sociali e politiche. Ma la tecnologia non sostituisce mai il comportamento sociale e politico; altera semplicemente le regole e le norme che seguiamo.» Grande verità.

Bisogna a mio avviso non cadere nella tentazione populista di considerarla una “tecnologia che abbatte i poteri forti”. Dietro l’espressione “poteri forti” a volte si celano davvero caste che fanno di tutto per mantenere la loro posizione di preminenza; altre volte invece si tratta solo di sistemi difficili da sovvertire perché semplicemente le dinamiche sono complesse, gli equilibri sono delicati e ci vuole tutta una serie di pesi/contrappesi per farli funzionare. Ci sono voluti secoli per arrivare a un’economia monetaria come quella che abbiamo oggi; non si può pensare di scardinarla in pochi anni, se non addirittura di sostituirla con una sorta di economia di baratto basata su beni immateriali; quanto meno non senza traumi e disorientamenti.

Il rischio di agevolare i maleintenzionati

Se da un lato è un bene che nascano nuove possibilità di business, nonché vere e proprie nuove economie basate sui cryptoassets, dall’altro lato non è affatto positivo che questi assets diventino facile rifugio e gustoso bottino per chi ha cattive intenzioni.

In un mondo in cui ogni pagamento sopra una certa soglia è tracciato e in cui il concetto di “titolo al portatore” è abbastanza superato, difficilmente si riescono a far girare grandi somme di denaro senza dover renderne conto al fisco o ancor meno si riescono a riciclare e ripulire soldi di losca provenienza senza dare nell’occhio. Ecco che chi ha queste intenzioni trova nel mercato delle opere d’arte un interessante espediente. Le opere d’arte hanno una caratteristica determinante: hanno un valore non sempre misurabile in modo univoco e anzi il valore può oscillare sulla base di vari parametri. Se chiedo un mutuo per l’acquisto di un immobile, l’agenzia immobiliare o la banca prima di fare il rogito fa una perizia sull’appartamento e, secondo alcuni parametri abbastanza standardizzati, dice qual è il valore di mercato della casa. Quindi se voglio fare carte false con il venditore per far sembrare che l’immobile valga di più, vengo facilmente sbugiardato (e comunque il mutuo mi verrebbe concesso sulla somma più bassa tra quella stabilita dalla perizia e quella da me dichiarata). Lo stesso si può dire in caso di vendita di un’automobile usata oppure in caso di vendita di oggetti preziosi. Difficilmente potrò dichiarare un valore molto lontano da quello che è stato effettivamente pagato.

I cryptoassets per loro natura sfuggono a questo tipo di controllo e di valutazione. Secondo un punto di vista ingenuo potrebbe sembrare una forma di libertà in cui tutto sta alla contrattazione tra le parti; ma in realtà quelle che si perdono sono delle garanzie di equità e delle tutele che l’ordinamento ha escogitato proprio a favore dei soggetti più deboli nei rapporti economici.

E in un mondo in cui queste garanzie non esistono è ovvio che chi ha cattive intenzioni (e un bel po’ di pelo sullo stomaco) trova maggior spazio d’azione. Tra questi purtroppo anche i riciclatori di denaro, gli strozzini, i truffatori, gli evasori, i malavitosi in generale.

Il solito problema del gap di competenze

Altra questione sottostante che comunque riguarda in generale le tecnologie, ma che viene particolarmente amplificata in ambito blockchain e cryptoassets, è quella del gap tra competenti e incompetenti. La continua ed esponenziale comparsa di nuove tecnologie tende a creare un gap tra chi ha dimestichezza con il mezzo e chi invece non ha gli strumenti culturali necessari o semplicemente è nuovo e deve ancora entrare nell’ottica. Il mondo crypto estende all’estrema potenza questo effetto. Capire il funzionamento della blockchain e in generale dei meccanismi crittografici che le stanno dietro non è proprio cosa semplice.

A questo dato oggettivo della particolare complessità, si aggiunge poi un effetto distorsivo e aggravante derivante da messaggi fuorvianti (diffusi ad arte e con malizia) che sembrano dire “il mondo crypto è per tutti, è facile, è senza rischi!” e che ovviamente trovano terreno fertile ancora una volta nei soggetti culturalmente più fragili, poco informati, privi dei necessari “anticorpi”.

Qualcuno potrebbe invocare la legge di Darwin e pensare cinicamente “chi non sta al passo viene fatto fuori”, o anche “peggio per loro, non erano obbligati ad avventurarsi in questo mondo”. Il problema è che qui, a differenza di altre tecnologie emerse negli ultimi due decenni che hanno effettivamente lasciato indietro alcune generazioni, il legame con l’aspetto economico e del risparmio è molto stretto e il rischio di farsi male sul serio è concreto. In altre parole, l’utente poco informato sui social il più delle volte rischia qualche brutta figura con foto o messaggi compromettenti, qualche virus che gli rovina il cellulare; qui ci sono sotto i soldi, soldi veri; e una volta che sono persi non c’è modo di recuperarli.

Se vado in banca con l’intenzione di fare investimenti, prima di aprire la mia posizione come cliente investitore mi viene prima sottoposto un questionario (aggiornato periodicamente) per comprendere il mio livello di competenza e determinare così il mio profilo di rischio prima che io sottoscriva qualsivoglia prodotto finanziario. Questa non è un’accortezza messa in atto dalle banche perché sono tanto attente alla loro clientela; è semplicemente un obbligo di legge (cosiddetta Direttiva MIFID). Quindi è una tutela stabilita dalle istituzioni dopo le brutte esperienze dei primi anni 2000, che fa parte dei già menzionati pesi e contrappesi che il diritto e l’economia hanno sviluppato in secoli di stratificazione e che per ovvi motivi non troviamo nel mondo crypto. Ne consegue che se perdo soldi per un investimento tramite intermediario (banca o società finanziaria), posso prendermela con qualcuno, almeno in parte; se perdo soldi nel mondo crypto, posso prendermela solo con me stesso.

La delicata questione etica tra disperazione e ludopatia

Acquisito che criptovalute e cryptoassets tendono ad attirare persone prive dei necessari “anticorpi”, si pone una delicata questione etica e sociale.

Certo, valgono i vari principi già menzionati riassumibili nelle seguenti frasi ad effetto: nel mondo reale non ci sono pasti gratis, se sei un tonno prima o poi vieni pescato, se non hai studiato Darwin non è un problema mio, se non conosci gli aspetti tecnici della blockchain mettiti a studiare e non lamentarti. Tutto molto vero, tutto molto duro e cinico.

La domanda però diventa: siamo davvero arrivati a questo? Davvero vogliamo applicare le stesse regole spregiudicate del mondo dell’alta finanza (in stile “The wolf of Wall Street”) anche alla casalinga di Voghera in cerca di un diversivo per i suoi risparmi e al giovane disoccupato in cerca di fortuna?

Siamo in un periodo storico di certo poco incoraggiante, in cui per alcuni gruppi sociali molte certezze sul futuro sono venute meno nel giro di poco tempo; la disperazione e il “mi è rimasta solo questa strada da percorrere”, uniti al gap di competenze di cui sopra, diventano la leva da sfruttare per attirare i polli da spennare. Se diventa un pollaio, purtroppo ci sono solo polli da spennare o allevatori che spennano polli per venderli. Bisogna stare attenti a quale dei due ruoli rivestiamo.

A ciò si aggiunge un perverso meccanismo della psiche umana, che in alcune persone arriva a livello di patologia, che genera un particolare fascino per l’azzardo, per il “mi gioco tutto e magari faccio la grande svolta”. Recenti studi hanno confermato quanto la ludopatia sia legata a doppio filo con il gusto per gli investimenti rischiosi (tra cui quelli in cryptoassets).

Senza alcun tipo di filtro e di “ammortizzatore” che garantiscano un approccio più etico, i danni su una grande fetta di popolazione possono essere davvero ingenti e irreparabili.

…poi c’è la questione ambientale

Poi c’è la questione ambientale e della sostenibilità. Come non farne cenno in questa sede?

Ma mi chiedo anche: come può essere che chi continua a mettere in piedi servizi basati sulla blockchain, che potrebbero ottenere lo stesso effetto utilizzando altre tecnologie, non si ponga minimamente la questione?

È cosa nota infatti che la blockchain sia una tecnologia altamente energivora. Per concludere qualsivoglia transazione in blockchain (ad esempio la cessione di un certo numero di Bitcoin, oppure il passaggio di proprietà di un NFT), è necessario risolvere una grande quantità di calcoli e quindi bisogna appoggiarsi su risorse hardware molto potenti per lo più connesse in rete. Certo, siamo tutti ormai connessi in rete e facciamo online anche cose che potremmo fare tranquillamente offline; siamo in bagno e, invece di alzare le voce per dire a nostro figlio di iniziare a mettere sul fuoco l’acqua per la pasta, preferiamo mandargli un messaggio vocale tramite un’app che fa passare il file audio su dei server in California.

Quindi siamo tutti un po’ colpevoli di consumare energia e produrre CO2 per assecondare i nostri vizi da occidentali.

Ma, anche in questo caso, con la blockchain le proporzioni sono ben diverse. “L’energia necessaria per convalidare una sola transazione Ethereum potrebbe alimentare una casa negli Stati Uniti per più di una settimana, l’energia necessaria per una transazione Bitcoin potrebbe alimentare una casa per più di 70 giorni”, ha spiegato il presidente del House Energy and Commerce Committee. E mettendo insieme le operazioni di estrazione (mining) di Ethereum e Bitcoin, risulta che sono responsabili dell’immissione in atmosfera di oltre 78 milioni di tonnellate di CO2, pari alle emissioni annuali di oltre 15,5 milioni di automobili.

Diventa quindi una questione prettamente etica e ambientale. Ovvio che non si deve abbandonare di per sé una tecnologia per questo motivo; si può – anzi si deve (e si sta già facendo) – attivarsi per renderla più efficiente ed ecologica. Ma un conto è usarla per fare cose utili e sensate, per trovare soluzioni mai trovate prima, per portare a termine meglio e velocemente attività che prima richiedevano più tempo e fatica, per dematerializzare processi che dovrebbero essere già da tempo dematerializzati. Altro conto è usarla per fare cose che si potrebbero tranquillamente fare con altre tecnologie più efficienti, ecologiche, economiche, accessibili; ancora peggio è usarla per dei meri “divertissement”, cioè per giochini ed esperimenti di dubbia utilità (tra cui metterei anche una buona fetta degli NFT circolati negli ultimi mesi).

 

Articolo di Simone Aliprandi  – Licenza: Creative Commons Attribution – Share Alike 4.0 International

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Simone Aliprandi ha un dottorato in Società dell’informazione ed è un avvocato che si occupa di consulenza, ricerca e formazione nel campo del diritto della proprietà intellettuale, con particolare enfasi sul mondo delle tecnologie open e delle licenze Creative Commons. Nel 2005 ha fondato il Progetto Copyleft-Italia.it (primo progetto italiano di divulgazione sul tema delle licenze open) e dal 2009 è membro del network di professionisti Array. Svolge costantemente attività di docenza presso enti pubblici e privati, ha all’attivo varie pubblicazioni (tutte rilasciate con licenze libere) e scrive costantemente per alcune testate web oltre che sul suo blog. Tra le sue opere più conosciute "Capire il copyright. Percorso guidato nel diritto d'autore", "Creative Commons: manuale operativo" e "Il fenomeno open data". Sito web: www.aliprandi.org

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