Digitale: un equivoco stupefacente

Ha ancora senso parlare di digitale? O il concetto stesso di digitale è superato dall'aumento della complessità che stiamo vivendo? L'informatica quantistica ci aiuterà a superare la dicotomia tra 0 ed 1? Ne parlano Stefano Epifani e Francesco Mercadante in un contributo scritto a 4 mani

Di Stefano Epifani e Francesco Mercadante

 

“Il puro essere e il puro nulla son dunque lo stesso.

Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere – non passa –

ma è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere (…)

L’infinito è la negazione della negazione, l’affermativo,

l’essere che si è di nuovo ristabilito dalla limitatezza”

G. W. F. Hegel, Scienza della logica

 

In teoria, le parole rappresentano il mondo. Ne facciamo un uso che, il più delle volte, descrive un bisogno, non solo e non sempre un bisogno primario, ma anche e, soprattutto, un bisogno di partecipazione, aggregazione e comunione. “Aiuto!”, “Ho fame”, “Sto male” denunciano una necessità inequivocabile e, per ciò stesso, il loro significato potrebbe essere considerato insostituibile o irrinunciabile. “Ho visto un cane”, “Il tuo lavoro è utile”, “Domani, partirò per gli Stati Uniti”, invece, sono frasi semplici delle quali, apparentemente, si potrebbe fare a meno. Qualcosa di simile si potrebbe dire a proposito delle ipotesi. In altri termini: se paiono ininfluenti o superflui certi giudizi o certe comunicazioni, figuriamoci il periodo ipotetico dell’impossibilità, per esempio! Ed è evidente – fin troppo – che l’insieme delle proposizioni non si esaurisce in questo quadro esemplificativo.

In ogni caso, sappiamo bene che il prevalere di alcune di esse sulle altre non esclude affatto l’inutilità; al contrario, la include a pieno titolo. I parlanti non sono programmati per dire cose interessanti e utili. Quale che sia il grado di validità dei nostri atti linguistici, essi sono fondati quasi esclusivamente su una pretesa di efficacia dei significati. Ci rivolgiamo a qualcuno con la convinzione di dirgli qualcosa di sensato. Il parlante, in pratica, applica spontaneamente e inconsapevolmente il principio aristotelico di non contraddizione: “È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga, al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”[1]. Se dico “mi piace la pizza”, non voglio che il mio interlocutore intenda anche “non mi piace la pizza”.

L’interpretazione di questo processo sembra scontata ed elementare, ma non lo è affatto, specie se cominciamo a considerare tutte quelle circostanze in cui gli stati d’animo – e, con essi, la fantasia, l’arbitrio, l’ignoranza et cetera – alterano il contenuto del messaggio. Insomma, il modello logico secondo cui la proposizione composta “A e non-A” [A ∧ (¬A)] è falsa è insufficiente a esprimere la realtà psico-linguistica. Nel capitolo precedente, per esempio, abbiamo trattato le fake news e i modi in cui sono generate e diffuse. Di certo, non possiamo pensare che l’autore di una notizia falsa sia sempre in buona fede: nel migliore dei casi, è incolto o inesperto. Il fenomeno, tuttavia, fa parte della lingua e, in particolare, della lingua di quel dominio digitale che con sempre rinnovata generosità viene definito rivoluzionario, come se si trattasse d’un evento straordinario. Tale visione enfatica, dal nostro punto di vista, produce un’ermeneutica incongruente e ci conduce a sovrastimare lo stesso concetto di digitale.

Noi ereditiamo l’aggettivo digitale da un aggettivo latino della seconda classe, dĭgĭtālis, che, a propria volta, deriva dal sostantivo dĭgĭtus, e, come leggiamo sui vocabolari, è ciò che è proprio del dito o fatto col dito. La sua pragmatica e l’area semantica in cui, in ultimo, si è sviluppato ed è tuttora ampiamente usato, però, sono prettamente inglesi: digit vuol dire cifra, è ‘un che di numerico’, qualcosa che può essere compreso solo nella misura in cui facciamo riferimento non già alla classica idea di numerazione o elencazione di numeri, bensì unicamente al concetto di codice o sistema. Ed è appena il caso di far notare che tale concetto potrebbe non bastare. Infatti, il codice – o il sistema – entro il quale il significato in questione diventa valido è quello binario basato sulle combinazioni di 0 e 1. Anche in quest’ultimo riesame, tra le altre cose, possiamo rilevare un limite interpretativo. Se la funzione binaria non si associa con quella oppositiva, ogni sforzo è vano. In sostanza, digitale è da intendersi sempre con valore oppositivo: le entità che esso rappresenta sono discrete, distinte, definite. Dunque, con le dita, noi componiamo numeri inconfondibili; la qual cosa c’indurrebbe a pensare a una paradigmatica limpidezza dei contenuti della rete.

È davvero così?

Siamo sicuri che la tanto discussa rivoluzione digitale sia, oggi, davvero o ancora digitale? Siamo sicuri che il concetto stesso di digitale sia ancora rappresentativo della realtà che con esso si vuole rappresentare? Oppure è il caso d’iniziare a cercare un nuovo termine che rappresenti meglio la complessità di un concetto giunto ormai ben oltre la definizione originaria?

Volgere lo sguardo al contesto in cui operiamo concretamente, rifarsi cioè all’esperienza semplice, può essere illuminante. Non è garantito che lo sia, ma non possiamo sottrarci alla prova del chiarimento. Secondo il modello funzionale del protocollo digitale, come abbiamo detto, il valore di verità delle nostre proposizioni, semplici o composte, può tradursi o in 0 o in 1. Ci stiamo chiedendo quanto sia efficace o, addirittura, adeguato questo valore. Con una metafora forzata, ci proponiamo di osservare la ‘fenomenologia’ di un tweet. Sappiamo che per esprimere il nostro pensiero nell’ambito del microblogging abbiamo a disposizione solamente 280 caratteri, spazi inclusi. Per quanto uno scrivente sia dotato di eccellente capacità di sintesi icastica, nella maggior parte dei casi, egli dovrà fare delle rinunce: ridurre l’aggettivazione e, di conseguenza, il ritmo, rendere essenziale la punteggiatura, trasferire l’ordine delle parole quasi esclusivamente sul piano della paratassi e così via. In pratica, il suo pensiero risulterà quasi sempre spoglio o, per lo meno, parziale. Ipotizzando che VERO corrisponda a 1 e FALSO a 0, che valore assegneremo al tweet? 1 o 0? Di fatto, né 1 né 0. È ‘logicamente’ impossibile attenersi al presupposto aristotelico, laddove appare doveroso affidarsi a una logica sfumata.

A partire dagli anni Sessanta, non a caso, nel tentativo di superare i limiti della tradizionale logica binaria, gli studiosi hanno cominciato ad avvalersi della Fuzzy Logic (Logica Sfumata), ovverosia di un criterio d’interpretazione delle proposizioni che consentisse un’estensione dei valori di verità: non più VERO O FALSO, ma infiniti valori o prodotti o valori polivalenti, secondo le proposte di Łukasiewicz, Gödel e Zadeh. Di conseguenza, il valore di verità d’un qualsivoglia tweet, a causa dei limiti d’esposizione, non sarà 1 o 0, bensì 0,40 o 0,60 o 0,90 et cetera. Sappiamo bene che nessuna sintesi giova alla qualità dei contenuti, ma confidiamo di avere per lo meno dato un contributo di fedeltà critica all’argomento. Con un po’ di audacia, ci spingiamo oltre, non senza spirito di provocazione, e sosteniamo che lo stesso termine “digitale”, se si applicasse la logica digitale, ‘imploderebbe’, per così dire. Il sistema, da una parte, ammette VERO E FALSO come valori possibili, ma, dall’altra, non ammette che le proprie combinazioni non siano riconoscibili o si configurino come parziali. Ogni elemento dev’essere rigidamente riconosciuto come valido perché, in caso contrario, si determinerebbe un paradosso e la tenuta del sistema sarebbe inficiata.

Dove potremmo collocare il paradosso del mentitore? Se dico “Io mento”, dico il VERO o il FALSO? È arrivato il momento di affermare perentoriamente che l’informatica, da tempo, vive con disagio la costrizione binaria nella quale è nata. Il termine “digitale”, oltre a essere obsoleto, è ormai improprio e dannoso, del tutto inefficace a rappresentare quel grembo semantico che lo ha generato e nutrito fino alla devianza.

Siamo passati, in poche parole, dal bit, binary digit, al qubit, ossia al quantum bit, un quantum dinformazione codificata che, sfuggendo all’osservazione macroscopica e, in particolare, alla ‘nominazione’ immediata e ortodossa, non è stato ancora opportunamente rappresentato da un linguaggio congruente. Verosimilmente, tutto ciò è accaduto senza che l’utente medio se ne rendesse conto, cosicché la lingua del processo non si è formata e, nello stesso tempo, si è imposta una sorta di diacronia linguistica digitale: questa volta, sì, proprio digitale. Riprendendo ancora una volta la metafora del tweet, adesso, siamo in grado di scomporre l’unità di computazione che esso costituisce perché la logica quantistica che assumiamo ci permette di tenere in debita considerazione la sovrapposizione degli stati e delle condizioni di verità, le possibili interferenze e, da ultimo, i sottoinsiemi. L’autore del tweet, in conclusione, può dire una qualche verità, ma può farlo mentendo o può mentire inconsapevolmente, può essere negativamente influenzato, per esempio, dalla propria condizione psicofisica o dall’interazione con altri utenti. Insomma, è e, nello stesso tempo, non è autore del tweet.

 

[1] ARISTOTELE, Metafisica, 1005b 19-20, a cura di G. Reale, 1993, Rusconi, Milano, pp. 144-145

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