Digital Health

La salute del futuro sarà sempre più digitale, come dimostrano le rapide innovazioni in questo campo. Ma accanto alle opportunità non mancano le sfide: dal tema della formazione a quello degli algoritmi, alcune riflessioni per una medicina digitale sostenibile

Immagine distribuita da Pixnio con licenza CC0

Non bisogna essere profeti per immaginare che la salute futura sarà digitale. Come si legge nella Global strategy on digital health 2020-2025 della WHO, “Digital transformation of health care can be disruptive; however, technologies such as the Internet of things, virtual care, remote monitoring, artificial intelligence, big data analytics, blockchain, smart wearables, platforms, tools enabling data exchange and storage and tools enabling remote data capture and the exchange of data and sharing of relevant information across the health ecosystem creating a continuum of care have proven potential to enhance health outcomes by improving medical diagnosis, data-based treatment decisions, digital therapeutics, clinical trials, self-management of care and person-centred care as well as creating more evidence-based knowledge, skills and competence for professionals to support health care.”

In particolare “there is a growing consensus in the global health community that the strategic and innovative use of digital and cutting-edge information and communications technologies will be an essential enabling factor towards ensuring that 1 billion more people benefit from universal health coverage, that 1 billion more people are better protected from health emergencies, and that 1 billion more people enjoy better health and well-being (WHO’s triple billion targets included in its Thirteenth General Programme of Work, 2019–2023).”

Peraltro, poiché siamo umani e dunque spesso più sensibili alle immagini e alle storie che non ai numeri, la nostra immaginazione è forse più colpita da quanto recentemente riportato in un articolo del Time dedicato all’immancabile metaverso: nel 2021, i neurochirurghi della Johns Hopkins University hanno eseguito il primo intervento chirurgico dal vivo utilizzando un visore per realtà aumentata, fornendo così al chirurgo una visualizzazione interattiva dell’anatomia interna del paziente. Il dottor Timothy Witham, che ha eseguito l’intervento chirurgico e dirige anche lo Spinal Fusion Laboratory dell‘Ospedale, lo ha paragonato a un GPS“.

Questo ci introduce al tema successivo: cosa intendiamo per salute digitale? Allo stato attuale mi sembra sia ancora un concetto valigia, al pari della psichiatria digitale che una nota rivista psichiatrica, Lancet Psychiatry, nel corso di due editoriali definiva “a catch-all for several different technologies and approaches, including mental health apps, machine learning algorithms, and ecological momentary assessment.” Anche nella valigia del digital health c’è un po’ di tutto, dal citato visore chirurgico per realtà aumentata al progetto Child Growth Monitor realizzato dall’ONG tedesca Welthungerhilfe assieme a Microsoft per contrastare la malnutrizione in India ma che, come fa giustamente notare Stefano Epifani nel suo ‘Sostenibilità digitale’, si potrebbe utilizzare nei paesi sviluppati per controllare il crescente e preoccupante fenomeno della sovranutrizione, ovvero dell’obesità.

Proviamo allora a estrarre dalla valigia della salute digitale alcuni dei principali contenuti.

Quello che viene dapprima alla mente parlando di medicina digitale è probabilmente la medicina online, che esisteva già prima della pandemia ma che la pandemia ha quanto mai incrementato e reso attuale. Mentre ancora prima dell’epidemia da COVID19 si discuteva con scetticismo sulla psicoterapia online, il trattamento più facilmente trasferibile online, nel corso della pandemia si è fatto di necessità virtù sperimentando che molti altri procedimenti medico-diagnostici (dalla medicina generale, alla cardiologia alla dermatologia etc.) e terapeutici possono essere eseguiti online con indubbi vantaggi di annientamento delle distanze e dei tempi di attesa nonché di alleviamento di inutili sofferenze e disagi per i/le pazienti. Come ci informa Felicia Pelagalli nel suo articolo CULTURA DIGITALE NELLA SANITÀ per la rivista il Mulino, è in corso di realizzazione una Piattaforma nazionale di telemedicina“un’infrastruttura nazionale che consenta a tutte le strutture sanitarie d’Italia di offrire i servizi di telemedicina, secondo standard comuni e interfacce aperte. La piattaforma garantirà omogeneità di identificazione, sicurezza, pagamenti, analisi statistiche e gestione dei flussi di dati. La procedura di attivazione scelta per la piattaforma nazionale è quella del Private public partnership, gestita dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), con il supporto del Mitd.

Servizi di telemedicina: televisite con i propri medici, teleconsulti specialistici, telemonitoraggio via sensori e apparecchi personali, e teleassistenza domiciliare. L’identificazione delle specifiche applicazioni per i servizi di telemedicina sarà affidata a due regioni capofila (Lombardia e Puglia), con l’obiettivo di selezionare applicazioni innovative e scalabili.”

Per quanto riguarda il mio campo, quello psichiatrico-psicoterapeutico, sono ormai numerosi gli studi che dimostrano un’efficacia della psicoterapia online paragonabile a quella della psicoterapia tradizionale in presenza, ragion per cui è prevedibile una crescita esponenziale della psicoterapia online, soprattutto ma non solo, nei paesi in via di sviluppo.

A questo punto emergono però anche le prime limitazioni e i primi ammonimenti. Non tutta la medicina può ovviamente essere eseguita online. Mentre è lapalissiano per la chirurgia, è meno palese, ma non meno vero per la psichiatria: a tutt’oggi impraticabile online in pazienti gravemente depressi, suicidali, con gravi problemi di dipendenza ma anche in tutti i casi in cui non si riesca a costituire un rapporto di fiducia tra paziente e terapeuta. Il ché ci porta anche al tema, fondamentale, del rapporto medico-paziente online. È fin troppo evidente che mancano nel rapporto online aspetti (qualità sensoriali quali quella del tatto, dell’olfatto, spesso vista dell’intera persona) che influiscono sul rapporto terapeutico, così come non sempre i tempi e le modalità online consentono l’attivazione di un rapporto sufficientemente empatico. Naturalmente la visita medica in presenza non è affatto garanzia di empatia. E in certi casi le conoscenze fornite dal consulto online del famoso specialista di New York super-esperto in un determinato campo possono essere più importanti di ogni empatia. Ma quando nel corso di una visita online di routine dovesse emergere il sospetto di un tumore, di una grave complicazione, cosa si fa? Si comunica il sospetto online o si convoca la/il paziente in presenza, consapevoli che la/il paziente vivrà l’attesa come un calvario, come quando una paziente viene convocata dopo una mammografia? Sono tutti temi da discutere, definire e, entro certi limiti, regolamentare, se vogliamo che la medicina digitale sia davvero medicina personalizzata. I vantaggi del digitale sulla medicina sono enormi, la difficoltà consiste però nell’attuazione concreta per evitare che la visita digitale, incomparabilmente più ricca di dati di quella medico-burocratica attuale, sia altrettanto frustrante per il paziente. Anche con i migliori sistemi digitali il rischio rimane simile, che cioè i dati non passino nello scambio tra medico e paziente, vivificandolo e arricchendolo, ma sopra la testa del paziente. È concreto a mio avviso il rischio che col tempo la medicina online, dopo il grande entusiasmo iniziale, si trasformi in grigia routine e magari in medicina di seconda classe, se vecchi e nuovi criteri deontologici non verranno rispettati. Come ribadisce ancora la Global strategy on digital health 2020-2025 della WHO: “The strategic objective places people at the centre of digital health through the adoption and use of digital health technologies in scaling up and strengthening health service delivery. The individual is an essential component in the delivery of trust-based, people-centred care”. Senza la fiducia, il digital Health è come la fede senza la carità. La domanda diviene allora: quale tipo di medicina online vogliamo praticare? E come vogliamo utilizzare gli strumenti della medicina digitale perché sia digitalmente e psicologicamente sostenibile? Poiché, come afferma Stefano Epifani, “l’etica non è nelle tecnologie, ma nel modo in cui le persone decidono di implementarle”.

Vi è poi il tema non meno importante della formazione digitale del personale medico-sanitario, come ricordato anche dalle già citate raccomandazioni della WHO “This focus covers not only patients, families and communities but also the health workers who need to be prepared to deploy or use digital health technologies in their work.“

E qui rinvio nuovamente alle riflessioni di Felicia Pelagalli: “È arrivato il momento di lavorare alla definizione di un modello delle competenze in sanità digitale: il DigCompHealth. Un quadro di riferimento che supporti lo sviluppo delle competenze digitali nella formazione dei nuovi professionisti della salute; degli operatori già attivi, pubblici e privati; dei cittadini che fruiranno dei servizi di sanità digitale, accedendo a Fse e piattaforme di telemedicina. Inoltre, bisogna ripensare i percorsi di istruzione e formazione dei nuovi medici, definendo il curriculum dei nuovi corsi di laurea in Medicina. Nel 2019, i rettori di 25 università mediche europee hanno concordato la rapida attuazione dell’educazione sanitaria digitale nei curricula delle rispettive scuole di medicina, concentrandosi su istruzione interprofessionale, abilità pratiche e innovazione. Sempre nel 2019, la National academy of medicine ha redatto una pubblicazione speciale intitolata Intelligenza artificiale nell’assistenza sanitaria: la speranza, l’hype, la promessa, il pericolo.”

Un secondo importante capitolo della sanità digitale riguarda la digitalizzazione degli atti medici. 

Felicia Pelagalli, nel suo già citato articolo, indica la linea su cui ci si sta muovendo oggi in Italia: “Un Ecosistema dati sanitari (Eds): un data repository con il Fascicolo sanitario elettronico come punto di accesso. Omogeneizzare le modalità di raccolta dei dati sul territorio nazionale (unificando i cosiddetti data models) e creare un’architettura sicura a livello regionale e nazionale. Il rilascio finale di tutta l’infrastruttura avverrà entro il secondo trimestre 2024.”

Recentemente Luca De Biase nel suo articolo su IlSole24Ore del 10.7.2022, allargava il quadro all’Europa e ci informava che “dal maggio scorso è partito il processo che porterà alla nuova normativa per lo spazio europeo dei dati sanitari, … garantendo i diritti dei cittadini, a partire dalla privacy. … Il progetto è quello di coordinare i database in modo che i cittadini possano accedere ai propri dati sanitari, i fascicoli sanitari siano interoperabili, gli operatori siano obbligati a registrare i dati in formati standard. Non ci saranno archivi centrali europei ma un coordinamento degli archivi nazionali e regionali. Il Regolamento per lo spazio europeo dei dati sanitari si inquadra in una strategia definita da Data Governance, Act, Ai Act, Gdpr, Regolamento sui Medical Devices e legislazione per la Sicurezza informatica. Tutto questo semplifica le regole in un’area che altrimenti avrebbe le 27 diverse normative degli stati membri. Alla fine, ogni cittadino avrà un “wallet” con i suoi dati e lo userà per accedere ai servizi e per favorire la ricerca scientifica.”

Mi limito ad aggiungere che deve anche qui valere il principio secondo il quale gli atti sono miei e li gestisco io. Se infatti è assolutamente fondamentale che la mia allergia sia subito nota al medico che mi visita per la prima volta in una situazione d’emergenza lontano da casa, sarei tutt‘altro che felice se quanto io ho confidato al mio psichiatra venisse messo a disposizione del personale sanitario di un ospedale senza il mio consenso.

I contenuti più rilevanti della medicina digitale sono però quelli che hanno a che fare con i Big Data e i machine learning algorythms. Grazie alla disponibilità di una impressionante quantità di dati e a sistemi di apprendimento computerizzato sono state messe a punto tecniche diagnostiche e terapeutiche di straordinario interesse in ogni campo della medicina. Per fare solo qualche esempio nel mio ambito, psichiatrico, vi è già la possibilità di fare diagnosi di schizofrenia attraverso l’analisi computerizzata del linguaggio dei pazienti, di diagnosticare la depressione anche solo sulla base dell’analisi delle foto Instagram di un/una paziente, di fornire un supporto digitale per aiutare i pazienti affetti da demenza a gestire meglio il quotidiano, per non parlare dei programmi digitalizzati di terapia cognitivo comportamentale per i disturbi d’ansia, la depressione l’insonnia e così via. Altrettanto promettenti sono i risultati di tecniche che ricercano Markers biologici per fare diagnosi (ad es. di depressione, demenza etc). Si tratta peraltro, come osserva ancora Epifani nel suo ‘Sostenibilità digitale’, di “sistemi di supporto alle decisioni utilizzati in ambito diagnostico (che) non sostituiscono i medici: sono piuttosto strumenti che rendono il loro lavoro migliore e più efficace, mettendoli nelle condizioni di sbagliare di meno, grazie al ricorso ad una capacità computazionale che, anche il migliore dei medici, non potrebbe mai avere”. Ciò nonostante, riconoscere di aver sbagliato e che l’indicazione per la diagnosi corretta è stata posta da un computer non farà certo inizialmente piacere a noi medici, la cui suscettibilità oscilla spesso su valori simili a quelli dello spread. Ma così come ci siamo abituati a dar ragione al primario e soprattutto alla singolare biologia di ognuno dei/delle nostri/e pazienti, impareremo anche a far tesoro dei dati del computer nell’interesse innanzitutto del paziente ma anche nostro.

Assai più importante è sapere quali Big Data diamo in pasto al computer e quali sono le regole dell’intelligenza artificiale che utilizziamo. Va peraltro precisato, come rileva Epifani nella sua opera già citata, che “il confine tra big data analysis e intelligenza artificiale è molto sottile. Talvolta a dire il vero, del tutto capzioso…. La differenza consiste, essenzialmente, nel modo in cui è concepito il sistema di regole che determina come vengono gestiti i dati… Nel primo caso si part(e) dal principio che i dati possono variare ma l’algoritmo – per complesso che sia – è sostanzialmente stabile… nel secondo caso invece l’algoritmo … può evolvere con l’aumentare della complessità di ciò che sta calcolando… Va detto che se i big data nascono nel primo modello quasi inevitabilmente finiscono nel secondo.” (Stefano Epifani, Sostenibilità digitale). Ancora Epifani (ibidem) ci avverte che i problemi non “dipenderanno da perfidi computer in stile Matrix, ma saranno determinati da regole che computer assolutamente inconsapevoli saranno indotti a seguire, basandosi su dati e regole che sarà l’uomo a fornire. … Se gli algoritmi di machine Learning, per la costruzione delle loro decisioni, si basano sull’analisi di informazioni strutturate, cosa succede se le informazioni strutturate che vengono loro fornite contengono distorsioni? … Il rischio che si sviluppino dei veri e propri bias cognitivi nelle intelligenze artificiali è decisamente concreto, con il conseguente rischio di ottenere sistemi che, invece di essere più equi e affidabili dei selezionatori umani, ne erediterebbero i pregiudizi.” La vera sfida, continua Epifani, “consiste nel comprendere come l’attenzione vada posta in chi oggi sta scrivendo gli algoritmi dei computer di domani e in come tali algoritmi saranno scritti” per cui “sarà sempre più importante estendere l’attuale concetto di apertura per i dati … agli algoritmi: così come si parla di dati aperti, si dovrà parlare di algoritmi aperti, o trasparenti“.

È inoltre fondamentale, a maggior ragione nel digital Health superare e sconfiggere la tendenza agli algoritmi predittivi, di cui parla Helga Nowotni, nel suo ultimo saggio, “Le macchine di Dio. Gli algoritmi predittivi e l’illusione del controllo”, citato da Luca de Biase, «Gli algoritmi predittivi rischiano di condizionare la prospettiva umana» . Scrive Nowotni “viviamo in una macchina del tempo digitale. Ci affanniamo a produrre previsioni con le tecnologie digitali, cercando di controllare ciò che appare incontrollabile. Gli algoritmi predittivi ci rassicurano dispiegando davanti a noi le traiettorie del nostro comportamento futuro.… Se abbiamo fiducia nell’algoritmo predittivo allora è probabile che agiremo in base alle sue previsioni. Che diventano così profezie che si auto avverano. Questo è problematico. Il futuro è un orizzonte aperto. Ma la fiducia nelle previsioni lo chiude”. In realtà anche nel caso degli algoritmi predittivi il tarlo non dobbiamo cercarlo nei computer, ma dentro di noi, incapaci di tollerare l’incertezza e disponibili a precluderci il futuro pur di avere l’illusione di una certezza. Gli algoritmi predittivi ricordano infatti molto da vicino la “coazione a ripetere” freudiana. Il padre della psicoanalisi nella parte finale della sua vita, segnata da dolori e lutti, aveva infatti intuito che spesso non esercitiamo le nostre scelte in vista del piacere che ce ne deriverà ma spinti, anzi agiti, da una costrizione a ripetere inconsciamente nel presente esperienze dolorose del passato, “al di là del principio del piacere” appunto. Gli algoritmi predittivi non fanno altro che predirci, quanto già dentro di noi sappiamo, che avremo anche in futuro gli stessi comportamenti e, nonostante i nostri buoni propositi dietetici e morali, faremo gli stessi “sbagli” a tavola, a letto, nei negozi offline e online. La libertà consiste proprio nel difficile tentativo, anche nel campo della salute, di liberarci dai nostri algoritmi, dalle nostre coazioni a ripetere per trovare il nostro individuale benessere.

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