Smart Mobs: comunità di pratica digitali e sostenibili

Le smart mobs sono comunità di pratica che usano i media digitali per realizzare meglio e più velocemente le proprie imprese comuni e permettono di parlare di sostenibilità digitale in quanto il digitale ha un impatto positivo sulla società

Immagine distribuita da PxHere con licenza CC0

La nascita dei social media ha fatto in modo che le comunità di pratica trasbordassero, diventando anche comunità di pratica digitali. Non bisogna però pensare che ci sia una scissione netta tra il reale e il virtuale. Spesso, infatti, si tratta più di un prolungamento, un’estensione del gruppo: un po’ come è avvenuto con gli arti superiori, che non terminano più una volta arrivati alle mani bensì allo smartphone. Come se questi ultimi fossero una sorta di protesi aggiuntiva in grado di contenere al proprio interno gli strumenti più disperati: dalla calcolatrice al metro.

Come scrive Giuseppe Riva in Fake News, “le comunità di pratica sono sempre esistite. Un gruppo di amici che vuole vincere il torneo di calcetto, un gruppo di studenti che vuole preparare insieme un esame e così via”. Solo che adesso questi gruppi sono diventati smart, e hanno inglobato al loro interno applicazioni e altre tecnologie digitali varie. Così, dal semplice gruppo, si è passati al gruppo whatsapp, fino alla creazione di vere e proprie interrealtà.

Le comunità di pratica digitali sono dette anche smart mobs ­­– termine coniato da Howard Rheingold, studioso di comunità virtuali – e per comprenderne meglio struttura e organizzazione bisogna partire dallo studio delle reti sociali, dell’etnografia, dell’antropologia. Al punto per cui il digitale e Internet hanno portato alla nascita di una nuova disciplina: l’etnografia digitale, che si occupa proprio di studiare come si muovono e interagiscono queste comunità sui social o su forum di discussione, ad esempio; o in che modo si comportano nei confronti di prodotti e servizi – anche a seconda dello stile di vita di questi gruppi (a tal proposito, è interessante la ricerca di cui si parla ne I metodi digitali nella ricerca sociale di Alessandro Caliandro e Alessandro Gandini che esplorano le comunità di pratica digitali vegan su Twitter).

Come continua Riva, “a trasformare una rete sociale in una comunità di pratica sono tre fattori: un impegno reciproco – tutte le settimane ci troveremo per allenarci il giovedì sera e per giocare la domenica mattina; un’impresa comune – vincere il torneo di calcetto; un repertorio condiviso di risorse interpretative – per riuscire a vincerlo dobbiamo schierare sempre la squadra migliore in grado di segnare un gol più degli altri”. C’erano però due limiti di queste comunità del mondo fisico, spiega Riva: da un lato la grandezza, in quanto un gruppo composto da un numero di persone troppo alto risulterebbe ingestibile senza essere istituzionalizzato o senza la creazione di una gerarchia; dall’altro l’impatto limitato sulle reti sociali in cui si trovavano: “Anche se vincevo il torneo di calcetto, questo non modificava il mio status sociale e professionale, a meno che non fossi notato da qualche talent scout e invitato a diventare calciatore professionista”.

Ma l’arrivo del mondo digitale e la sua fusione con il mondo fisico hanno permesso alle comunità di pratica tradizionali di abbattere questi limiti. Non solo, i servizi di collaborazione su piattaforme digitali hanno preso le mosse proprio dai tre fattori principali di questi gruppi tradizionali, come ha dimostrato lo studio di Joon Sang Baek, Ezio Manzini e Francesca Rizzo Sustainable collaborative services on the digital platform: Definition and application: “Nel definire i servizi di collaborazione sulla piattaforma digitale, c’era un’idea ipotetica di ciò che richiede per essere formato (3 criteri per la selezione dei casi). Il risultato dei casi di studio ha chiarito questa ipotesi e ha confermato che tutti i casi presentano una caratteristica comune per quanto riguarda l’ambiente in cui si forma e si sviluppa. Il sistema strutturale di servizio collaborativo sulla piattaforma digitale è costituito da 3 elementi: un evento, un servizio collaborativo e una soluzione abilitante.

 A ciò si deve aggiungere il fatto che i social media hanno permesso di ‘esportare’ al di fuori della rete sociale di riferimento i propri traguardi, obiettivi e intenzioni. Ecco perché si parla di ‘folle digitali’ (smart mobs appunto); Riva cita alcuni esempi delle prime folle digitali nate già nel 1999:

una comunità di pratica che usa i media digitali per realizzare meglio e più velocemente le proprie imprese comuni. Gli esempi presenti nel libro di Rheingold riflettono la situazione della tecnologia di quindici-venti anni fa: i gruppi di dimostranti No-Global che a Seattle nel 1999, durante la riunione dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), si sono organizzati attraverso SMS e chat fruite da cellulari, PC portatili e palmari. Oppure le centinaia di gruppi spontanei di cittadini inglesi che, nel 2000, protestando contro l’aumento del prezzo della benzina hanno utilizzato cellulari, SMS, e-mail da portatili e radio CB dei taxi per coordinare il blocco delle pompe di benzina. Tuttavia la riflessione che faceva allora Rheingold vale ancora oggi: le tecnologie digitali «permettono alle persone di agire insieme con modalità inedite e in situazioni in cui l’azione collettiva non era mai stata possibile». Non solo, all’interno delle smart mobs si verifica una situazione particolare: i vantaggi del «capitale sociale» generato dalla rete, se questa è molto grande, sono significativamente maggiori dei costi richiesti ai singoli individui per partecipare al gruppo. Nelle scienze sociali il termine «capitale sociale» viene usato per indicare il valore aggiunto che gli individui che entrano in un gruppo sperimentano per esserne parte. Questo nuovo valore è generato dagli aspetti psicologici (senso di comunità, empowerment), relazionali (sostegno sociale, partecipazione) e strutturali (norme e valori condivisi) della vita sociale”.

Le tecnologie digitali sono diventate una soluzione abilitante della sostenibilità digitale, permettendo agli utenti e alle persone di sostenersi socialmente a vicenda e generare capitale sociale. Le smart mobs permettono di parlare di sostenibilità digitale in quanto il digitale ha un impatto positivo sulla società: sono le comunità di pratica abbastanza grandi a far sì che il costo complessivo degli individui sia sostenibile in quanto inferiore rispetto all’aumento di capitale sociale generato dall’attività del gruppo.

Come si legge in Sustainable Collaborative Services on the Digital Platform: Definition and Application: “Ci sono servizi di collaborazione in cui gli utenti finali collaborano per fornire soluzioni alle loro esigenze sociali insoddisfatte. Queste soluzioni alternative si aggregano per portare a innovazioni radicali verso una società sostenibile”.

Dai gruppi nati su Facebook fino ad applicazioni per smartphone, sono molti gli esempi di servizi collaborativi digitali. Ad esempio, vicinimiei.it (sia sito web che app) o Nextdoor. L’app del tuo quartiere permettono – come già si può intuire dal nome – di connettersi con il quartiere in cui si vive (basta registrarsi e inserire il CAP o il nome del proprio quartiere) per aiutare le persone nelle attività più disparate: dal rimanere sempre aggiornato su quello che succede, fino a creare annunci di animali domestici smarriti o connettersi con i propri vicini – un vero e proprio social network di quartiere che offre anche la possibilità di donare o mettere in vendita oggetti, proposito di economia circolare.

Un’altra app nata agli inizi degli anni 2000 è Meetup, che permette di “incontrare persone, stringere nuove amicizie, trovare supporto, far crescere un’attività ed esplorare i loro interessi”, offrendo la possibilità di trovare gruppi o eventi per categorie o interessi simili: se si è interessati a visitare un museo ma non si ha la compagnia con cui andare, fare un aperitivo o persino leggere ad alta voce classici della letteratura. Esistono anche app come Hitchhikers – dall’inglese ‘autostoppisti’ – un social network che fornisce un servizio che “collega gli acquirenti ai viaggiatori” guardando anche alla sostenibilità ambientale, in quanto “gli acquirenti possono acquistare tutte le loro necessità da tutto il mondo e spedire con un viaggiatore già in viaggio” e che dunque deve comunque percorrere quella strada; in questo modo, da un punto di vista di sostenibilità economica, “gli acquirenti risparmiano sulla spedizione e i viaggiatori guadagnano viaggiando”. Oltre a questi, esistono comunque vari tipi di comunità di pratica digitali o servizi collaborativi. La mappatura di informazioni è una di queste: gli utenti collaborano per mappare e localizzare pub, ristoranti, biblioteche o qualsiasi altra cosa.

La sostenibilità digitale, dunque, passa in primis dalle persone e si realizza attraverso queste, trasformando digitalmente gesti comuni, quotidiani, come quello di andare a citofonare al vicino per chiedergli un po’ di sale, zucchero o caffè.

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