C’è chi il digitale lo fa per noia
chi se lo sceglie per professione. E c’è poi chi il digitale lo fa per passione
Si potrebbe parafrasare così De Andrè per dar conto di alcuni dei molteplici nostri atteggiamenti verso il digitale. Ma molte altre sono le caratteristiche che ci distinguono nel nostro rapporto con il digitale. C‘è chi ha visto nascere il digitale e ha contribuito a svilupparlo brandendolo come la bandiera di un nuovo sogno di solidarietà e di uguaglianza. C’è chi ci è nato dentro e non può neppure immaginarsi un mondo senza digitale, che gli appare dunque come la cosa più scontata del mondo. C‘è chi, come tanti, è migrato dall‘analogico al digitale con pigrizia, solerzia, gioia, rammarico, entusiasmo, nostalgia, imbarazzo, paura, catastrofismo, ottimismo, ingenuità, spirito critico e molto altro ancora. Credo che spesso, alle prese con schemi e semplificazioni, ci dimentichiamo che il rapporto con il digitale è, per la maggior parte di coloro che non lo coltivano professionalmente, assolutamente personale e riflette, come uno specchio, molti tratti della nostra personalità. Non è un caso che un numero sempre maggiore di studi analizzi ad esempio il nostro rapporto con i social media sulla base del nostro stile di attaccamento. È persino scontato sostenere che anche il nostro rapporto con il digitale tout court venga influenzato da uno stile di attaccamento ansioso, evitante o sicuro o da altri tratti di personalità, come ho cercato di evidenziare in precedenti articoli di questa rubrica.
Purtroppo nella pratica quotidiana di interazione con il digitale tali aspetti psicologici vengono spesso tralasciati a favore di contrapposizioni ideologiche che non fanno avanzare di una virgola la comprensione del nostro rapporto con il digitale né tanto meno il suo impiego consapevole e sostenibile. Se vogliamo però comprendere e superare le nostre paure riguardo al digitale, se desideriamo davvero divenire consapevoli dei pericoli psicologici indotti da un uso acritico dei social, se vogliamo che il digitale divenga sempre più motore di uno sviluppo sostenibile, dobbiamo avere il coraggio di analizzare il nostro rapporto anche psicologico con il digitale.
Sulla base di analogie tra l‘inconscio e il digitale, ho sostenuto che sia possibile parlare di un inconscio digitale per indicare l’insieme di ciò che noi proiettiamo inconsciamente (affetti, pensieri, intenzioni) su Internet e sui social Media così come degli stimoli inconsci che dal digitale vengono suscitati in noi, influenzando il nostro quotidiano. Non è di per sé niente di nuovo rispetto a quanto ci accade nella vita quotidiana, in cui i comportamenti e le parole degli altri subiscono la deformazione dei nostri pregiudizi cognitivi e delle nostre reazioni emozionali, salvo il fatto che nel digitale ciò avviene con tempi accelerati e generalmente con maggiore intensità a causa da un lato della riduzione degli elementi sensoriali a nostra disposizione e dall’altra del meccanismo di regressione indotto da Internet, ipotizzato da Holland già nel 1996.
Parlare di inconscio digitale (in senso psicoanalitico) ci aiuta a capire che proiezioni inconsce, distorsioni cognitive ed emotive avvengono anche e più intensamente nel digitale e che di tali distorsioni inconsce dobbiamo tener conto per superarle e sviluppare dunque un rapporto consapevole con il digitale, per giungere appunto alla meta della sostenibilità digitale.
Interrogarsi sul nostro personale rapporto con il digitale è anche un modo per scoprire e mettere in atto nel quotidiano la dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali, recentemente approvata dalle istituzioni europee.
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