Inconscio digitale

Il Web e le sue forme, da Internet ai social network, hanno caratteristiche simili ai sogni, diurni e notturni. Per questo, non è azzardato ipotizzare che la vita digitale abbia caratteristiche simili a quelle dell'inconscio: si può parlare, dunque, di inconscio digitale?

Immagine distribuita da Pixabay

Viviamo ormai in un mondo onlife, secondo il celebre neologismo coniato da Floridi per evidenziare la natura ibrida delle nostre esperienze quotidiane, in parte digitali e in parte analogiche. Mentre infatti, come ricorda lo stesso Floridi “ancora negli anni novanta, accendevamo e spengevamo il modem, ci “connettevamo” a Internet; o “andavamo” su Internet …c’era una netta divisione tra essere online e essere offline” ci siamo ora abituatati a interagire rimanendo all’interno dell’informazione digitale, che sempre Floridi, con un altro neologismo, ha definito “infosfera”. Ma se è così, se davvero viviamo onlife, ed è difficile dubitarne, anche il nostro inconscio è divenuto digitale, onlife?

Facciamo prima un salto indietro nel tempo per comprendere meglio quali sono le realtà consce e inconsce in cui noi esseri umani possiamo spaziare.

Scrive Gérard de Nerval nell’incipit della sua novella Aurelia, che reca non casualmente come sottotitolo “Il sogno e la vita”, : “Il sogno è una seconda vita. Non ho mai potuto attraversare senza un brivido le porte d’avorio o di corno che ci separano dal mondo invisibile. I primi momenti di sonno sono un’immagine della morte. Un intorpidimento nebuloso afferra i nostri pensieri e ci è impossibile determinare l’istante preciso in cui l’io riprende l’opera della sua esistenza, sotto una diversa forma. È un sotterraneo incerto che s’illumina a poco a poco: dall’ombra e dalla notte emergono pallide figure, gravi e immobili, che popolano la sede del limbo. Poi il quadro prende forma, una nuova luce rischiara quelle apparizioni bizzarre: il mondo degli Spiriti si apre per noi.” Il sogno, che ha sempre accompagnato l’uomo e al quale l’uomo fin dall’antichità ha prestato grande attenzione e attribuito un particolare significato religioso o quanto meno spirituale, è il mondo in cui vengono riflesse, rappresentate ed elaborate le nostre paure, angosce, tristezze, gioie, aggressioni, i nostri conflitti, i nostri dolori, i nostri traumi. D’altronde “noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La Tempesta, atto IV, scena I). Il ‘900 si apre con uno dei grandi sogni dell’umanità: L’interpretazione dei sogni di Freud.

Freud ritiene che i sogni diurni, “ad occhi aperti” siano addirittura l’anello di congiunzione, l’attività in comune, tra l’artista e tutti noi

I sogni diurni non sono però da meno. Freud ritiene infatti che i sogni diurni, “ad occhi aperti” siano addirittura l’anello di congiunzione, l’attività in comune, tra l’artista e tutti noi. Nella sua relazione “Il poeta e il fantasticare” Freud sostiene infatti, come abbiamo già visto, che la capacità del poeta di affascinarci con le sue storie derivi proprio dal fatto che anche in noi agisce un’attività di fantasticare simile a quella creativa del poeta. Il poeta stesso – afferma Freud – è molto simile al bambino che gioca. La differenza sta nel fatto che il bambino “appoggia gli oggetti e le situazioni da lui immaginati alle cose visibili e tangibili del mondo reale”. Solo questo appoggio e null’altro distingue il “giocare” del bimbo dal “fantasticare”. L’artista va al di là del reale, nella dimensione simbolica. In ogni caso tanto l’atto creativo quanto il piacere creativo derivano dalla frustrazione. “Sono desideri insoddisfatti le forze motrici della fantasia, e ogni singola fantasia è un appagamento di desiderio, una correzione della realtà che lascia insoddisfatti”.  Non a caso poesia ha la sua radice nel greco ποιείν, creare, – ma questo è il regno del linguista e filologo Francesco Mercadante – dar vita cioè ad un mondo alternativo, quello narrativo e più in generale artistico.

Da sempre dunque, o meglio, da quando l’essere umano è quello che oggi conosciamo ha avuto a disposizione una seconda vita, quella del sogno e ancora un altro mondo quello dapprima creativo del gioco, poi della narrazione e per gli “eletti” quello della creazione artistica.

Le forme del WEB, da Internet ai social network, hanno caratteristiche in parte simili ai sogni ad occhi aperti (fantasie derivanti dall’insoddisfazione) in parte ancora analoghe ai sogni notturni e dunque ai processi inconsci che nel sogno regnano sovrani

È invece solo da una trentina d’anni che abbiamo, o meglio il 59,5% della popolazione mondiale ha accesso, prima tramite il PC, poi il tablet e lo smartphone, al WEB, e dunque ad un’ulteriore vita non onirica, né narrativa, né artistica ma digitale, le cui forme, che spaziano da Internet ai social network, hanno caratteristiche in parte simili ai sogni ad occhi aperti (fantasie derivanti dall’insoddisfazione) in parte ancora analoghe ai sogni notturni e dunque ai processi inconsci che nel sogno regnano sovrani, essendo “ i sogni notturni la via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica” (Freud). Tale “vita digitale” è a prima vista caratterizzata da contenuti improntati alla massima razionalità e da un grado dì attività da parte nostra molto maggiore rispetto a quella onirica. Anziché attendere che il sonno ci colga, che Morfeo ci accolga nellle sue braccia alle sue condizioni e con i suoi tempi, e senza dover invocare le Muse né fare sforzi narrativi o creativi, accendiamo prometeicamente la scintilla della “vita digitale” per conto nostro (potendo poi accedere al suo interno ad ulteriori realtà virtuali, dapprima “second life” e ora anche a “meta”) confidando così di averne il controllo. Ma è verosimilmente un’illusione perché la vita digitale appare talvolta controllare noi, esercitando un fascino cui non sempre sappiamo resistere. Non a caso uno dei primi osservatori di Internet dal punto di vista psicoanalitico, Holland, parlava già nel 1996 di una regressione legata ad internet (Internet Regression, 1996) riferendosi proprio al desiderio di “immergersi senza limiti e senza tempo nel cyberspazio … vissuto come una alternativa alla vita ordinaria.” (Longo, in Psicoanalisi, identità e Internet, 2014). I tre principali sintomi di tale regressione sarebbero per Holland l’insulto facile, la molestia sessuale e la straordinaria generosità verso estranei, tutti riconducibili ad una mancanza di inibizione, che è caratteristica quanto mai facilmente riscontrabile sugli attuali social.

Alla luce dunque della parentela tra vita digitale e sogni, diurni e notturni, non è azzardato ipotizzare che la vita digitale abbia caratteristiche assai simili a quelle dell’inconscio che opera sovrano nei sogni e nel mondo artistico.

Ebbene quali sono tali caratteristiche?

A Freud si deve la prima sistematica illustrazione delle caratteristiche dell’inconscio e la prima compiuta organizzazione dello stesso, nonché differenziate ipotesi sui processi di funzionamento che regolano i rapporti tra conscio e inconscio. Egli riassume le conoscenze raggiunte e le sue ipotesi sul tema nel saggio omonimo L’inconscio (1915). Le caratteristiche che contraddistinguono i processi appartenenti al sistema inconscio vengono così illustrate da Freud:

“In questo sistema [l‘inconscio] non esistono né la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza.”

“Le intensità degli investimenti sono di gran lunga più mobili” nel senso che l’investimento emotivo fatto su un contenuto può rapidamente spostarsi ad un altro contenuto (spostamento) e molteplici rappresentazioni possono condensarsi in una (condensazione). Freud definisce inoltre come sistema caratteristico dell’inconscio il processo psichico primario in cui coesistono appunto i meccanismi dello spostamento e della condensazione, che sono poi gli stessi della formazione del sogno.

“I processi del sistema inconscio – aggiunge Freud – sono atemporali e cioè non sono ordinati temporalmente, non sono alterati dal trascorrere del tempo, non hanno insomma alcun rapporto con il tempo”.

“Parimenti I processi inconsci non tengono in considerazione neppure la realtà” essendo soggetti solo al principio del piacere.

Non c’è bisogno della genialità di Freud per cogliere straordinarie analogie tra le caratteristiche che Freud attribuisce all’inconscio e i caratteri costitutivi del digitale.

Innanzitutto la sostituzione della realtà esterna con un’altra realtà, che però nel caso del digitale non possiamo chiamare tout court psichica, anche se nella dichiarazione di indipendenza del cyberspace essa è stata espressamente indicata come “la nuova casa della Mente”. Effettivamente è difficile trovare per tale realtà digitale un aggettivo soddisfacente. Essa è stata dapprima definita cyberspazio, poi realtà virtuale, quindi realtà aumentata e per il momento può essere meglio indicata come digitale, in quanto derivante dalla tecnologia digitale.

In secondo luogo l’atemporalità. I contenuti del digitale, pur essendo ordinati o almeno ordinabili temporalmente, “non sono alterati dal trascorrere del tempo” proprio come i processi inconsci, tendendo ad una durata teoricamente illimitata con la quale solo da poco abbiamo cominciato a confrontarci, cercando di regolare anche legalmente ad esempio l’eredità digitale o consentendo l’eliminazione di tracce indesiderate di noi nel mondo digitale futuro. Come nell’inconscio, i contenuti del digitale sono inseriti in un contesto che li protegge dall’usura del tempo. “Tutto ciò che è conscio si consuma. Ciò che è inconscio resta inalterabile. Ma una volta liberato, non cade in rovina a sua volta?” (Freud)

Altrettanto evidente è infine l’analogia tra l’estrema mobilità degli investimenti dell’inconscio e della realtà digitale, nella quale i contenuti vengono investiti e disinvestiti di interesse emotivo ed affettivo in modo subitaneo, basti pensare al fenomeno della viralità. Ma ciò che è virale oggi non lo sarà più domani, anzi probabilmente nemmeno più stasera.

Anche se l’aristotelico principio di non contraddizione non è formalmente sospeso, è però praticamente disatteso nel mondo digitale in cui coesistono tutto e il contrario di tutto. Quello che Freud scrive a proposito dell’inconscio si attaglia anche al digitale: “in questo sistema non esistono la negazione, né il dubbio né diversi livelli di certezza” È anche ciò che al digitale viene spesso rimproverato, l’assenza di ogni ordine e valore in base ai quali orientarsi. Ma è anche la base di quella salutare libertà di Internet rivendicata dalla già citata dichiarazione di Indipendenza del Cyberspace:” Governi del mondo industrializzato, voi decadenti giganti di cemento e di acciaio. Noi proveniamo dal cyberspace, la nuova casa della Mente. Nell’interesse del futuro, noi vi chiediamo, uomini del passato, di lasciarci da soli. Voi non siete benvenuti tra noi. Voi non avete alcuna sovranità dove noi ci entriamo. … il cyberspace è un luogo fatto di transazioni, relazioni e di puro pensiero che si staglia come un’enorme onda nel mare della comunicazione. La nostra è una realtà che va oltre il mondo dei nostri corpi, un mondo, appunto, che si trova ovunque e allo stesso tempo da nessuna parte.”

Credo dunque che sia psicoanaliticamente legittimo parlare di un “inconscio digitale” e definirlo come l’insieme di ciò che noi proiettiamo inconsciamente (affetti, pensieri, intenzioni) su Internet e sui social Media così come degli stimoli inconsci che dal digitale vengono suscitati in noi, influenzando il nostro quotidiano

Credo dunque che sia psicoanaliticamente legittimo parlare di un “inconscio digitale” e definirlo come l’insieme di ciò che noi proiettiamo inconsciamente (affetti, pensieri, intenzioni) su Internet e sui social Media così come degli stimoli inconsci che dal digitale vengono suscitati in noi, influenzando il nostro quotidiano. In questo senso l’inconscio digitale psicodinamicamente inteso va al di là del concetto (sostanzialmente cognitivo) di inconscio digitale proposto dal sociologo olandese Derrick De Kerckhove che, tra i primi a parlarne, lo intende come l’ “enorme insieme dei dati presenti in rete potenzialmente estraibili su ciascuno di noi”. E non è nemmeno l’inconscio artificiale di cui scrivono Legrenzi e Umiltà: “la mole enorme di informazioni che ci sommerge attraverso gli schermi dei nostri computer ha creato una sorta d’inconscio artificiale, fonte di trappole insidiose per il nostro giudizio“ (Molti inconsci per un cervello, Paolo Legrenzi, Carlo Umiltà, Il Mulino ed.). L’inconscio digitale inteso psicoanaliticamente non è infatti in Internet, nei Social Media o nelle più o meno sicure ed affidabili banche dati delle Big Tech ma è dentro di noi ed opera secondo le stesse modalità del nostro tradizionale inconscio, inducendoci cioè a proiettare sul digitale, senza che ce ne rendiamo conto, le nostre emozioni più riposte, i nostri pensieri più inaccessibili e i nostri più inconfessabili desideri. Allo stesso modo quello che è disponibile in rete, è stato inviato e postato sulle piattaforme da utenti altrettanto parzialmente inconsapevoli, viene recepito da noi attraverso il filtro inevitabilmente distorcente delle nostre precedenti esperienze emotive e cognitive. Non è di per sé niente di nuovo rispetto a quanto ci accade nella vita quotidiana, in cui i comportamenti e le parole degli altri subiscono la deformazione dei nostri pregiudizi cognitivi e delle nostre reazioni emozionali, salvo il fatto che nel digitale ciò avviene con tempi accelerati e generalmente con maggiore intensità a causa da un lato della riduzione degli elementi sensoriali a nostra disposizione (essenzialmente solo la vista), e dall’altra del meccanismo di Internet Regression già esposto. Proprio per questo è importante a mio avviso formulare un concetto che dia un nome (“nomina nuda tenemus”) al fenomeno e ci consenta di comprenderlo. Parlare di inconscio digitale in senso psicoanalitico ci aiuta a capire che proiezioni inconsce, distorsioni cognitive ed emotive avvengono anche e forse più intensamente nel digitale e che non sono riconducibili a intenzionali comportamenti di aggressione, truffa, abuso di singoli o delle piattaforme ma appunto a processi inconsci che operano in noi così come nei nostri interlocutori.

La psicoanalisi, un dinosauro in estinzione, una disciplina anzi ripetutamente data per morta e poi risorta dalle sue ceneri come l’araba fenice, ci offre ancora una volta concetti, quali quello di inconscio, di transfert e contro transfert, che ci aiutano a orientarci nella contemporaneità e a comprenderla meglio. Già nel 2014 era stato scientificamente dimostrato, con un esperimento, eticamente controverso ma scientificamente corretto, pubblicato sulla rivista PNAS, il fenomeno del contagio emotivo di massa via social networks, il fatto cioè che “gli stati emotivi possono essere trasmessi agli altri [utenti di social networks] tramite contagio emotivo inducendo le persone a provare le stesse emozioni senza averne consapevolezza“ e senza bisogno di contatto personale. Il contagio emotivo sociale offline e online è di fondamentale importanza per comprendere complessi fenomeni di adattamento, aggregazione e omologazione, fascinazione di massa quali quello della viralità dalle conseguenze spesso imprevedibili. Noi proiettiamo sugli altri emozioni di cui, nella maggior parte dei casi, non siamo consapevoli e interpretiamo altrettanto inconsapevolmente i comportamenti altrui. Ciò avviene a maggior ragione nel mondo onlife del digitale. Il concetto di “inconscio digitale” è, a mio avviso, un utile strumento interpretativo per comprendere meglio cosa avviene nei nostri scambi in Internet e sui social, per non cadere nella trappola moralistica della vergogna, dello svergognamento e della gogna mediatica ma anche per evitare di rimanere intrappolati in una maschera narcisistica appariscente e affascinante che però tradisce la nostra vera identità.

Nel prossimo post analizzerò più dettagliatamente le diverse concezioni cognitive, psicodinamiche e relazionali dell’inconscio digitale e la loro utilità al fine di meglio comprendere i nostri processi di relazione onlife e di prevenire, per quanto possibile, l’instaurarsi di relazioni tossiche o comunque nocive in ambito digitale.

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