In qualunque azienda, ormai, i rapporti con i fornitori e i clienti vengono tenuti – prevalentemente – per via telematica, attraverso la posta elettronica.
Dipendenti e collaboratori accedono a questi dati, quotidianamente, nello svolgimento della propria attività lavorativa. Alcuni, addirittura, sui social networks diventano “amici” dei clienti dell’azienda, collezionando raccomandazioni e stringendo con essi relazioni autonome.
Ma cosa succede quando il rapporto di lavoro finisce?
Nella prassi accade molto di frequente che il dipendente di un’azienda – una volta cessata la collaborazione – utilizzi dati e informazioni del precedente datore di lavoro (come ad esempio l’elenco dei clienti e dei fornitori) per fornirli ad un’impresa concorrente o per avviare una propria attività economica. Si tratta di comportamenti molto pericolosi perché i dati in questione rappresentano, per chi li detiene, un’importante risorsa ed hanno un notevole valore economico, come dimostra il fatto che queste informazioni vengano sottratte e cedute ad altri soggetti.
Infatti, se il recapito postale dell’azienda cliente (o partner) rappresenta dato facilmente acquisibile, lo stesso non può dirsi per l’indirizzo di posta elettronica e il numero telefonico dei decision maker dell’azienda stessa. Tali informazioni, infatti, non sono facilmente accessibili tanto che una parte del loro valore è rappresentato proprio dal vantaggio temporale che il concorrente acquisisce quando ne viene in possesso; a ciò si aggiunga che l’ex-dipendente può fornire altri elementi (come reddito, condizioni patrimoniali, abitudini d’acquisto ecc.) in grado di “arricchire” il mero elenco dei clienti.
Ma quali sono le tutele per l’azienda?
Finora, la Giurisprudenza – in modo discutibile – ha affermato che tale comportamento non costituisce di per sé concorrenza sleale, dal momento che le informazioni in questione, seppur riservate, non dovrebbero considerarsi segrete in quanto “le notizie, che si assumono sottratte e quindi indebitamente utilizzate, sono note o facilmente accessibili agli esperti ed operatori del settore, ed in ragione di tanto non hanno valore economico” (basti pensare, ad esempio, ai vari “portfolio” dei siti aziendali)
Fortunatamente, a livello penale, la Cassazione ha affermato che risponde del reato di rivelazione di segreto professionale il dipendente che, dimessosi, utilizza file riservati acquisiti dalla precedente società in favore di una nuova società concorrente, traendone vantaggio.
Ma tale tutela è applicabile anche quando (as esempio, sui social network) il rapporto tra l’ex collaboratore e il cliente diventa personale? Difficile pensarlo.
Pertanto a quanti, preoccupati, si chiedono come sia possibile tutelarsi da comportamenti di questo tipo, si può consigliare di inserire specifiche clausole nei contratti di lavoro/collaborazione e la sottroscrizione di social media policy, magari con la previsione di penali in modo da vincolare tutti alla necessità di non fare uscire i contatti dall’azienda.
Perchè, come diceva Miguel De Cervantes, è “due volte sciocco colui che, svelando un segreto ad un altro, gli chiede caldamente di non farne parola con nessuno“.
ma basta una social media policy? Voglio dire: come mi assicuro che abbia valore legale? è un contratto? Non viene sottoscritto dal dipendente, quindi che valore ha?