Il marketing, i giochini su fb, la viralità autocompiaciuta e l’etica del purché se ne parli

L’altro giorno guardo la mia Time line di fb e mi chiedo se ho sbagliato account: trovo una decina di post di diverse amiche/conoscenti che annunciano di stare per trasferirsi all’estero, nei posti più disparati del mondo, per tot mesi. Si trattasse di persone che non hanno lavori fissi o giovani speranzose avrei pensato ad una improvvisa presa di coscienza che il paese è alla frutta ed è meglio andarsene; ma si tratta di signore con lavoro fisso, e persino più sedentarie di me, quindi mi stupisco di questa ondata di espatri e per periodi tanto lunghi. Anche perché sulle bacheche, quando si chiede loro spiegazioni, fanno le vaghe: ma no, è un gioco, in realtà non sta partendo nessuno. Finalmente mi arriva una mail che spiega l’arcano: una associazione di femministe ha dato il via ad una catena di S.Antonio: si deve scrivere sulla bacheca vado a X per tot mesi, camuffando i dati della data di nascita, senza però spiegare poi apertamente sulla bacheca il senso del post, perché “non bisogna dire nulla agli uomini”. Il tutto, nelle intenzioni di questi geni del marketing, per sensibilizzare le donne sul problema del cancro al seno. Sulla rete non sono la sola a rimanere stupita: infatti cominciano a comparire anche dei post in cui si spiega il gioco. E contestualmente lo si critica per la sua manifesta imbecillità: non c’è alcuna correlazione comprensibile fra la campagna e lo scopo dichiarato, un richiamo, un legame logico. Per giunta questa idea che si debbano escludere gli uomini dalle spiegazioni viene giudicata fastidiosa, persino discriminante, manco fossero, gli uomini, dei minus habens insensibili, non in grado di capire una campagna contro il cancro. Il risultato è che la campagna raccoglie adesioni assai poco efficaci, mentre gli articoli di critica al metodo finiscono totalmente coll’oscurare il contenuto del messaggio: di prevenzione del cancro nessuno parla, sono tutti infastiditi per il modo usato.

stati_facebookEcco, questo mi pare un chiaro esempio di fail, legato al vecchio concetto del “purché se ne parli“. L’idea, cioè, che basti suscitare scandalo o fastidio attorno ad una iniziativa perché comunque lo scandalo porta con sé risonanza mediatica, e questa determini il successo di una campagna a prescindere. È il principio per cui il concorrente borderline del Grande Fratello, famoso per saper fare pernacchie in pubblico, viene considerato un “vip”, perché tutti gli danno del maleducato idiota e quindi lui viene molto citato e diventa noto.

Solo che per le campagne pubblicitarie l’equivalenza non è così scontata: colpire l’attenzione del cliente con la “trasgressione” può andare bene, ma quando la trasgressione, vera o presunta, è fine a se stessa, il claim è totalmente slegato dal prodotto o dal messaggio che si vorrebbe comunicare, non ha agganci, non ha nessuna motivazione, rischia di diventare un clamoroso boomerang: si parlerà sì molto della campagna, ma il prodotto/messaggio resterà in ombra, non se lo filerà nessuno.

Qui l’idea di creare aspettativa, curiosità attorno alla prevenzione sul cancro con il giochino dei falsi annunci di trasferimento è assolutamente priva di ricadute: anche quando venga spiegata, chi viene informato si sente truffato, trattato come uno stupido. Più che la voglia di informarsi sulla prevenzione, si prova un vago senso di irritazione nei confronti della donna aderente alla campagna che ti ha fatto perdere tempo con uno status senza senso. La campagna voleva essere virale, e magari sarà anche riuscita a convincere centinaia o migliaia di donne ad aderire al giochino, ma a parte questo, cosa ha ottenuto? Un vuoto gioco di ridondanza che non lascia alcuna traccia e non ha contribuito a diffondere coscienza dell’importanza della prevenzione nella lotta contro i tumori. Una viralità fine a se stessa, autoreferenziale, più che altro autocompiaciuta. E allora domandiamoci: ha un senso tutto ciò?

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