Italia 2014: l’innovatore moderato e i (soliti) problemi irrisolti

L’innovazione tecnologica è il pilastro intorno al quale ruota gran parte della strategia Europa 2020. La strategia è finalizzata ad identificare i principali settori e le metodologie da seguire per uscire dalla crisi, stimolare la ripresa e costruire un contesto socio-economico competitivo e al contempo vivibile ed inclusivo.
L’innovazione svolge dunque un ruolo importante, a tal punto che l’ Unione dell’innovazione, il tentativo di stimolare a livello regionale un ambiente favorevole all’innovazione, è stata inserita fra le azioni prioritarie della strategia Europa 2020. Un posto in cui le idee innovative si muovano in fretta favorendo la nascita di nuovi prodotti e, di conseguenza, lavoro.

Come procede questa strategia? E l’Italia, che ruolo gioca?

Alcune settimane fa è stato pubblicato il rapporto sull’andamento dell’innovazione in Europa che suggerisce alcune risposte e, inevitabilmente, richiama alla riflessione. A mio avviso la riflessione maggiore, per quanto riguarda l’Italia, non sta nella posizione che il nostro paese occupa, quanto e soprattutto nel fatto che le raccomandazioni che si possono estrarre dal documento, sono le stesse che ci sentiamo porgere da anni. Ma andiamo a guardare meglio.

Il rapporto è ovviamente piuttosto complesso e utilizza una terminologia tecnica che non è il caso di riportare. In termini generali è bene dire che la metodologia utilizzata per comparare i paesi è partita dall’identificazione di “indicatori” e “dimensioni” dell’innovazione. Le dimensioni spaziano dalle risorse umane, fino al supporto finanziario che lo sviluppo dell’innovazione riceve, senza tralasciare il ruolo che giocano gli investitori privati. A seconda della performance registrata, i paesi membri sono stati classificati in 4 categorie che oscillano da innovation learders (Svezia, Germania, Danimarca e Finlandia) fino a modest innovators (Bulgaria, Lituania e Romania). Le due categorie centrali, quella degli innovation followers, (Francia, Irlanda, Regno Unito, Olanda, Belgio, Austria, Cipro, Estonia) e dei moderate innovators (Italia, Repubblica Ceca, Spagna, Portogallo), sono ovviamente le più numerose.

Innovation scoreboard

In termini generali la media della performance dell’innovazione è cresciuta dell’1,7% rispetto al periodo 2006-2013 e tutti gli stati membri hanno fatto segnare un qualche miglioramento. Le dinamiche maggiori, riporta il documento, avvengono all’interno dei gruppi, dove i paesi osservati guadagnano o perdono posizioni rispetto allo scorso anno. Difficilmente tra un gruppo e l’altro.

E l’Italia? Come già detto la performance italiana è stata inserita all’interno del gruppo degli innovatori moderati, posizione che l’Italia occupa stabilmente da tempo. Dopo una prima lettura, ci si può divertire a saltellare tra un concetto e l’altro di quelli evidenziati, ed il quadro che viene fuori è  più o meno il seguente: difficoltà a trattenere i ricercatori; procedure burocratiche complesse; ritardi; difficoltà nella commercializzazione dei prodotti; poca propensione all’investimento.

A questo punto della lettura mi sono fermato e ho chiuso il rapporto per verificare che quello che stavo leggendo fosse realmente riferito al 2014 e non al 2004…Una volta accertatomi che l’anno era quello corretto, ho ripreso, stupito, la lettura. Nonostante il rapporto non tralasci gli aspetti congiunturali né tantomeno quelli strutturali, mi lascia a dir poco perplesso rileggere, per l’ennesima volta, che i problemi principali, a quanto pare, risiedono nell’incapacità di trattenere i ricercatori, nella mancanza di fondi da destinare alla ricerca, nelle complessità burocratiche…Ma non erano cose che sapevamo già nel 2004?

Sempre secondo il rapporto, il nostro paese è stato tra i 4 maggiormente attivi nel settimo programma quadro, il programma di finanziamento di ricerca che ha coperto il periodo 2007 – 2013, con 3.3 miliardi di fondi comunitari raccolti. Ottimo dato direi. Sarei curioso di approfondire la sostenibilità e il ruolo che le istituzioni italiane coinvolte hanno giocato, ma rimane un buon dato e preferisco non rovinarmi il sapore che una buona notizia ti lascia in bocca.
Per quanto riguarda invece i fondi strutturali il dato sembra buono per rivelarsi poi pessimo: dei quasi 28 miliardi destinati all’Italia attraverso il canale di finanziamento indiretto, attraverso gli enti locali dunque, oltre il 20% è stato destinato ad attività relazionate con la ricerca.  Tuttavia, e il rapporto non usa mezze parole per farcelo capire, “nonostante il ruolo cruciale che questi fondi avrebbero potuto giocare, soprattutto in alcune regioni, l’Italia è stata incapace di spendere queste risorse già allocate, impedendo al paese di approfittare di un supporto finanziario di tale entità”.

L’ennesima possibilità sprecata dunque. Così come sprecato è il tempo che passiamo a ripeterci le stesse cose, ormai da almeno un decennio, senza prendere iniziative valide. Si potrebbe cominciare col copiare quello che fanno gli altri paesi ad esempio.

Non compete a me suggerire soluzioni politiche. Quello che posso augurarmi è che il rapporto stia circolando negli uffici tecnici dei ministeri interessati generando riflessioni e proposte.

Nonostante da una parte si percepisca una mortale ignavia, dall’altra qualcosa sembra si stia muovendo. L’Italia e la Spagna (molto più che l’Italia a voler essere sinceri) stanno finalmente muovendo a ritmi forzati verso i fondi comunitari. Lo strumento PMI di Horizon 2020 ha fatto registrare importanti passi avanti in questa direzione.

Ma di questo ne parleremo alla prossima occasione.

 

 

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