Il Coitus Interruptus dell’Amministratore Delegato con i Social Media

C’eravamo tanto detestati. Lui AD con fama di tagliatore di teste, con esperienze anche all’estero, convinto che il mercato è Il Grande Regolatore. Di tutto, anche della vita privata di chiunque lavorasse nella “sua” impresa. Io responsabile o consulente della comunicazione, in aziende pubbliche e private, con una visione più sociale del mercato e l’obiettivo ambizioso di una conciliazione vita-lavoro. Ci ritroviamo, dopo alcuni anni, in un gruppo di cicloturisti pronti ad attraversare una suggestiva regione della Mitteleuropa. Pedalare insieme e già una relazione e, inevitabilmente, si parla.

Leader vs Manager. Dopo qualche chilometro si accosta. “Perché dicesti che era una cazzata?” inizia senza preamboli, come fosse successo ieri. “Ne hai fatta più d’una. Di quale parli?” replico.  Chiarisce che sta parlando del corso outdoor sulla “Leadership trasformativa” per i manager delle filiali. Rispondo con una domanda: Cosa è cambiato, dopo? “Poco, ma perché non erano proattivi, e neanche reattivi, degli incapaci protetti dai sindacati. In un’azienda meno collusa politicamente, andavano tutti licenziati…”.
Sorvolo sulla circostanza che la sua nomina ad AD proveniva dalla politica, e ribatto: “Quel corso era una cazzata in sé a prescindere dalla qualità dei destinatari. Quindi l’insuccesso è stato, paradossalmente, positivo! A te servivano, infatti, sessanta bravi manager e non sessanta leader illuminati. Un’azienda con sessanta leader sarebbe ingestibile. Ne sarebbe bastato… uno, di leader”.
Non raccoglie e mi ribatte che all’epoca non dissi questo, ma criticai contenuti e metodologia del corso. “Vero, ma un consulente preferisce non dire, in un’occasione ufficiale, che l’AD sbaglia le strategie! Tentai lo stesso di evitare la scelta autolesionista, mettendo in luce come l’offerta formativa era in realtà fatta solo di effetti speciali, pseudo innovazione metodologica, contenuti labili, insomma…fumo per AD rampanti.”

Fa un piccolo grugnito. Non so se è dissenso o… fatica; la strada comincia a salire. In realtà è il segnale della stoccata in arrivo: “Già, avrei dovuto fidarmi di un consulente (non mio ma del Presidente che, tra l’altro, voleva farmi fuori) che aveva, in precedenza, coperto di grottesco un altro Ceo, facendogli aprire un Internal Corporate Blog chiuso dopo quindici giorni! E dopo un marasma epico con i Sindacati. E passavi…per un profeta della Comunicazione interna! Complimenti…”.

Touché! Il fatto, nella sostanza, purtroppo è vero. Passo al contrattacco: “Non mi faccio mancare niente; anche l’insuccesso, quando capita, è meglio che sia grande, eclatante, la certezza dell’errore piuttosto che la mediocrità dei risultati incerti sui quali, uno come te, fa costruire report compiacenti! Ma come mai quest’attenzione alla comunicazione interna? Tu, che dicevi che la comunicazione interna è “solo ordini e procedure”.

Si aggiusta il casco, e soffia: “ Devo riconoscere che il public speaking è sempre stato il tuo forte. Parli bene profeta, parli per paradossi. Ma a me non m’incanti…”

“Public speaking” non è parlare bene. Provo a ricordargli che public speaking non vuol dire “parlare bene”, ma parlare in pubblico, anzi più correttamente parlare “con” un pubblico. E per questo contrastai il suo progetto di inviare dirigenti e funzionari ai corsi di una sorta di nipotino italiano di Anthony Robbins; nipotino che, mettendo insieme scienze mal digerite, pseudoscienze, nonché i cascami dell’imbonitore di piazza e dello sciupafemmine, prometteva di trasformare tutti i manager in fini dicitori che avrebbero sedotto clienti, pubblici, media e anche la vicina (o il vicino) di casa. Il tutto in due giorni, of course!

“Serviva una forza vendita aggressiva e determinata, con la cultura del fare!” ribatte “Non le tue ideologiche teorie sulla comunicazione interna come svincolo dell’intero sistema relazionale d’impresa… Che poi non vuol dire una beata cippa!”

Metto un rapporto più duro, perché davanti a noi si apre un’invitante lunga discesa e questo favorisce anche l’abbrivio verbale: “Provo a rispiegartela, la cippa. Se non c’è una funzionale continuità tra comunicazione interna e comunicazione esterna, se la comunicazione interna non alimenta esaurientemente e con continuità i front line di qualunque tipo, il dialogo con i clienti e gli stakeholders inevitabilmente ne risentirà. La comunicazione di un Brand non è solo quella pubblicitaria di prodotto, ma soprattutto quella sparsa in ciascuna micro relazione quotidiana: ogni lavoratore dell’azienda è, o può diventare, un testimone credibile, un ambassador, un advocat… soprattutto ora che i Social Media sono una realtà con la quale fare costantemente i conti“.

Mi ricorda che “Con centoquaranta mercenari economicamente motivati (io traduco: cottimisti con incentivi esasperati) e cazzuti (io traduco: vuoti a perdere, dialetticamente impoveriti) che sanno come si fa marketing one to one, che poi vuol dire saper chiudere un contratto” aveva aumentato del 37% il numero di polizze nel suo ramo. Questi erano risultati, il resto solo “chiacchiere e… comunicazione interna”.

Trovo particolarmente coerente la sua mezza citazione di Al Capone, visto che molti di quei contratti furono annullati in sede giudiziaria ed extragiudiziaria: per comunicazione ingannevole, incompleta o addirittura per truffa, e per elusione fiscale. La comunicazione “cazzuta” dei mercenari veniva letta dai giudici, e non solo, in termini molto diversi. Ovviamente, nella versione dell’ex AD la colpa era di “un ufficio legale incapace. E pronto a calarsi le brache appena le associazioni dei consumatori starnutivano, o appena il frustrato di turno scriveva a un giornale o sfogava su qualche Social Coso i suoi isterismi da sfigato”.

Intanto, pedalando, siamo arrivati al primo punto di ristoro. Le nostre strade si dividono perché abbiamo optato per escursioni successive diverse. Gli dico che probabilmente questa nostra conversazione diventerà un articolo. Sul web. Fa spallucce, ghignando: “ Ci avrei giurato. La condivisione, il feedback, l’engagement, la ricerca dell’affinità relazionale, …non cambi mai profeta!”. Manco tu.

Spiaccicare il Pulcino Pio è come asfaltare l’AD. Esternalizzare era un suo pallino: poter disporre di “mercenari”, come amabilmente definiva i collaboratori non interni, si conciliava bene con il modello comunicativo “trasmissivo in tempo reale”. Della tecnologia, questo lo esaltava: la connessione costante con i “suoi dipendenti” e la multicanalità del comando. Chi rispondeva prima che terminasse il primo squillo (“No Drindrin” era il suo motto-ammonimento), già si accreditava: “I need smart boys, smart girls!” ripeteva, come un mantra.

Mister NoDrinDrin, ovviamente, trasferiva questa sua concezione ai Social Media, dei quali proprio non riusciva a vedere la differenza con i Mass Media. E come? Ancora una volta, esternalizzando: una “bella agenzia di Brand Reputation” che si occupasse di tenere a bada “tutti quei verbosi casi clinici” dei Social, ovviamente… ”taroccando, ma solo quanto basta”.

“Prof, io questi Social me li sbatterò con estasi erotica.” – mi annunciava – “Metteremo giù un virale che farà impallidire quello di T-Mobile! Mi sto godendo i preliminari; sarà un orgasmo!”.

Fu coitus interruptus invece. Si fermò ai preliminari infatti, come il contatore di Youtube che non schizzò mai verso l’alto: una timida crescita, un rapido arresto. Il Consiglio d’Amministrazione lo fece fuori, in una seduta lampo, senza neanche diritto di replica. Del resto il modello era trasmissivo, mica inferenziale: l’ascolto non era previsto.

Da quel potente canale di comunicazione interna (ah! la nemesi…) che è la macchinetta del caffè, la notizia circolò velocissima, anche grazie a tutti i devices degli smart boys. Con lo stile cinico-cimiteriale del gossip aziendale: “Hanno asfaltato NoDrinDrin; non ha fatto a tempo a fare un rantolo.” Liberatorio! A prescindere dalla persona, una gestione che finisce si porta via i riti, le parole d’ordine, le filastrocche manageriali che l’hanno caratterizzata e che inevitabilmente ci hanno condizionato e ossessionato.

Quello stesso senso quasi di catarsi che, oggi, ci coglie quando il trattore spiaccica il “Pulcino Pio” e fa cessare, finalmente, il tormentone del suo insensato berciare e della nostra coazione a ripetere. In fondo, Pulcino Pio è anche una metafora di vita aziendale.

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11 COMMENTS

  1. Gran bella storia! Da condividere. Ma i dialoghi sono stati così frizzanti anche nella versione live con pedali e lingua fuori o sono frutto diuna rielaborazione successiva? In entrambi i casi complimenti, ottimo esempio per i prossimi AD!

    • Erano anche più frizzanti i dialoghi nella realtà, ma ho preferito eliminare la parte… ,come dire, caratterizzata da espressioni e intercalari molto, molto coloriti…ecco! Anche per evitare problemi al nostro Techdirettore, of course.
      Grazie per l’attenta lettura, Giacomo.

  2. Affascinante e scritto benissimo (public writing?) e totalmente condivisibile.
    Troppo spesso la creatività italiana diventa truffa… Grazie
    Paolo

  3. Ciao Marco,
    letto con piacere il pezzo.

    Prendo la parte “La comunicazione di un Brand non è solo quella pubblicitaria di prodotto, ma soprattutto quella sparsa in ciascuna micro relazione quotidiana: ogni lavoratore dell’azienda è, o può diventare, un testimone credibile, un ambassador, un advocat… soprattutto ora che i Social Media sono una realtà con la quale fare costantemente i conti“.

    Quanto è vero! Per questo dobbiamo trattarci bene, rispettarci, divertirci… perché poi usciamo dalla scatola e fuori continuiamo il racconto iniziato dentro.
    Qualche giorno fa in pizzeria amici di amici mi chiedevano del mio lavoro, della realtà in cui vado e sto tutti i giorni e più di altre volte mi sono sentita responsabile del mio “ruolo” senza che nessuno me l’abbia dato, meno male.
    Raccontavo anche aneddoti, ovviamente, riflessioni serie e scene ridicole eclatanti e a un certo punto mi sono detta, “quanta pubblicità – termine improprio – alla “mia” azienda sta passando in questo momento dalla mia faccia e dalle mie parole, di più: solo per il fatto che ci lavoro io, che per loro sono carina, simpatica e brava e sincera (gli amici sono fatti così:-), anche l’azienda lo è, almeno in parte, almeno certe persone, in certe attività, fosse solo un testo da riscrivere tre volte (è parte del mio lavoro, come sai).

    Che faccio, Marco, chiedo un aumento per questo, cioè per essere un brand mobile?:-)

    ciao, Alessia

  4. Noi pensiamo di fare disfare, bene o male, con o in contrapposizione a qualcosa-qualcuno. In parte ci si riesce, ma sempre con i limiti posti dai persuasori occulti, quei pochi che ci tengono in mano.
    Ma come hai fatto a non ammazzarlo, quello, che ti ha tartassato per tutto il tempo dello “svago”.
    Solo giocando a golf è lecito, anzi quasi doveroso, parlare di lavoro e concludere affari.

  5. Grazie Paolo!
    Alberto: non essere così sicuro di averlo individuato. Anche altri ne sono convinti e ciascuno pensa a una persona diversa (il che non depone bene per lo standard medio degli AD…).
    Alessia: significativa esemplificazione che coglie nel segno. E molto interessante e spendibile la nuova definizione dei lavoratori come promoter dell’azienda: Brand Mobile. Mi piace!
    Nadia: …vuoi mettere la soddisfazione di levarsi i sassolini dalle scarpe? Allora e adesso, scrivendo questo articolo. Ah…non so giocare a golf.

  6. Grazie Marco per le tue “pillole” di saggezza comunicativa e per l’arguzia che ti contraddistingue da sempre… Preferisco non sapere di chi parli, ma i capi non ne escono bene, anche se hai proprio ragione!
    Alberto

  7. Ciao Marco,
    ho letto con gusto quello che hai scritto.

    Il titolo del tuo articolo mi ha fatto tornare alla mente una vecchia intervista a Mastroianni, che mi è capitata tra le mani quest’estate. Chiedevano a lui, che aveva interpretato la parte del seduttore in molti film, se avesse con essi qualcosa in comune. E lui rispondeva così: “Non ho proprio nulla in comune con Casanova, eccetto l’incapacità di andare fino in fondo”.
    Sarà vero? Sarà vero che il piacere è un amore che non va fino in fondo? Non so. Ho conosciuto molte persone che “hanno molte relazioni”, almeno dando credito a quanto si sussurra intorno a loro, non senza un pizzico di invidia. Mi sembra che spesso questa frase nasconda un significato poco nobile … significa che tali persone hanno il potere di abusare di molti per il proprio piacere, per i propri comodi. Non pensi che sia così? E poi … sono sempre così tanto impegnati … e così sordi! La cura delle loro “relazioni” – dei loro piaceri, dei loro comodi – li paralizza impedendo loro di fare altro.

    Non ne siete convinti? Leggete cosa dice Tolstoj: “Le donne sono la principale pietra d’inciampo nell’attività dell’uomo. È difficile amare una donna ed allo stesso tempo concludere qualcosa. Per questo c’è un mezzo d’amare comodamente senza ostacoli: il matrimonio. Ed io ho sentito questo dopo essermi sposato: ad un tratto mi si sono liberate le mani. Ma a trascinarsi questo fardello senza il matrimonio, le mani sono così ingombre che non si può fare nulla”.

    Ciò che lui dice a proposito del matrimonio, della differenza tra essere amanti e sposi, non è applicabile ad altri tipi di relazione? Non sono anch’esse liberanti se vissute fino in fondo, come raramente accade nei matrimoni veri? Le mezze relazioni, così interessate, così piene di sottintesi e di cose che non si possono dire, così insincere, così rivolte verso se stessi, non sono forse una catena?

    Mi potreste dire … che c’entra tutto questo con i rapporti tra l’AD e i suoi collaboratori? Forse che l’AD li deve “amare”? Non è sufficiente che li usi per i suoi bisogni o per il bene dell’azienda che amministra? Me lo sono domandato anch’io prima che mi imbattessi in una frase di Vassilj Grossman, che recita così: “Non credo nel bene. Credo, io, nella bontà”.

    Sono rimasto folgorato. Solo chi è buono può fare il bene. Non era difficile, ma me l’ero dimenticato. E mi sono vergognato un po’.

  8. Buon fine settimana professore!

    Mi riprometto sempre di passare a trovarla appena gli impegni lavorativi me lo permetteranno giuro che lo farò.

    Che dire… Mai stato un Mr. Drindrin, ma devo ammettere che le aziende italiane (quelle molto strutturate) danno spesso l’impressione di suggerirti che questo sia un modello vincente.

    La comunicazione interna, la costruzione di una cultura aziendale coerente, partecipata e diffusa sono obiettivi nel lungo periodo. Soprattutto,i cui risultati sono complicati,almeno apparentemente, da quantificare.

    La miopia degli ad, spesso si ferma al numerone di fine anno e agli indici percentuali verso bdg e ya…

    Se il social era un coito interrotto… Diciamo che il numero, l indice, l incremento sono pillole di viagra. Eccitano l’ad medio piu di Belen.

    La verità è che ancora la comunicazione è considerata un costo, se interna uno sfizio… 

    Da sales planner le dirò che forse la capacita di quantificare, di proporre idee innovative in modo numericamente appetibile, aiuterebbe anche i giovani (che guru non sono considerati) a farsi ascoltare.

    Dovremmo rendere la vendita della comunicazione interna “arrapante” anche per chi è cresciuto con la sindrome del “numero piccolo”, come molti degli ad che ho incontrato in grandi aziende.

    Professore grazie mille per l interessante spunto di riflessione.
    A presto.

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