Digitale, social: importa il come si fa o il cosa si fa?

Continuando a raccontare quello che vedo nella mia esperienza quotidiana, mi vedo quasi obbligato a sottolineare un trend pericoloso, sul fronte del lavoro, del recruitment, dell’organizzazione, della formazione.

Pensare, perché?

Provocatoriamente potrei dire che il trend è quello di sottovalutare, sul digital e sul social, l’importanza del pensare a cosa dobbiamo fare (potremmo anche chiamarla strategia), a favore della competenza nello schiacciare bottoni.

In pratica focalizzarsi sulla capacità di produrre una pagina Facebook o una attività di relazione con le persone a discapito del che cosa facciamo e di perché lo facciamo. E del perché dovrebbero darci retta.

Questo si vede anche in formazione, sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda; una miriade di corsi specialistici che insegnano a “schiacciare i bottoni” ma non a pensare. Addestramento professionale, più che formazione. Insegnare ad usare il CAD, non come si progetta una casa.

Pericoloso far progettare le case all’idraulico

In pubblicità è noto da tempo che non basta saper usare Photoshop per fare un annuncio pubblicitario che vende. C’è molto altro prima. E se uno sa solo usare Photoshop diventa un simpatico operaio in fondo alla catena della creazione, quasi una commodity, sostituibile e sottopagabile.  Molto più sotto di un creativo o di un planner che sanno invece pensare a come dovrà essere la casa che un qualche muratore dovrà poi tirare su 😉

Sul digitale sembra diffusa la convinzione che non importi invece il pensiero. Si confonde la capacità di fare “in pratica” un’attività digitale con la capacità di trovare idee per fare attività che non cadano nel disinteresse generale, come capita nella stragrande maggioranza dei casi (date un occhio al numero di fan di un sacco di pagine aziendale e avrete un primo, drammatico indicatore di come sono stati buttati i soldi).

Quindi imparare un manuale, saper operare serve (altrimenti sarebbero solo parole e strategie, e nulla di concreto). Ma è come farsi fare la campagna pubblicitaria dal tipografo o l’azione di social media da quello che ci ripara i computer.

Serve testa, non serve la fuffa

Serve moltissimo avere una risorsa che possa occuparsi praticamente della realizzazione e della curation dei contenuti, del rapporto con le persone. Ma se questa persona, all’atto di dover immaginare il “cosa fare”, si rifugia nella copia di cose già viste o sfodera idee banali… allora non ci siamo. E, cosa ancora peggiore, se è da solo a fare cose, dal basso di un’esperienza limitata, non avrà nessuno da cui imparare e quindi farà molta fatica a crescere.

Sul digitale, ammettiamolo, c’è troppa fuffa. Perché la committenza non conosce abbastanza il problema e le sue logiche. Perché si sottovaluta, si confonde il saper fare con il saper pensare a cosa fare. Nessun manager aziendale lancia un prodotto perché l’azienda sa come tecnicamente si lanciano i prodotti. Prima di lanciare un prodotto si chiede quale prodotto potrà funzionare sul mercato. Di cosa la gente ha bisogno, voglia. E dopo pensa a come lanciarlo.

C’è fuffa perché, in buona fede, chi compra formazione cerca corsi operativi e snelli, economici e rapidi, con un titolo che apra al mercato. Così vediamo Community Manager che sanno usare bene Facebook e costruire eleganti blog. Ma non hanno la minima idea (a parte la lista di regolette fornita al corso) di come si parla alla gente. E di cosa sia interessante per coinvolgere le persone, in un mercato di content e relazione affollatissimo.

I corsi specialistici, intendiamoci, servono. Molto. Ma se ho bisogno di un direttore per un ristorante di lusso, non lo mando a un corso di cucina. O forse si, ma dopo che ha capito e imparato un sacco di cose più generali.

A pensare si fa più fatica che a fare, non c’è dubbio. Ma forse è necessario, visto che la controparte, le persone, il consumer è sempre meno tonto e (lui, sì) sembra pensare sempre di più, prima di comprare…

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