Durante i tre giorni di vernice, nella più brumosa delle tarde primavere, può accadere di tutto. Anche di incrociare milfone, con yacht, in libera uscita culturale o andare a sbattere (alla lettera) contro una rockstar. Ma non puoi fermarti: è tempo d’altro, è tempo di Biennale.
Bella, ma gli manca un’app. Ecco lo dico subito: tra le sette edizioni della Biennale che ho visto in diretta, questa è la più stimolante. Ho imparato a muovermi tra le mille seduzioni veneziane, ma un’app ufficiale avrebbe aiutato. Peccato non ci sia. E allora evito di appesantirmi con troppe pubblicazioni. Mi limito alla piantina e a “55 The Bag”, una guida intelligente. Con questi due soli strumenti cartacei, maneggevoli, e il tablet con Google Maps posso affrontare le tante seduzioni della Biennale, sperando di coglierne quante più possibile. Arrivo all’edizione n.55 conoscendone solo il titolo: Il Palazzo Enciclopedico. Preferisco non leggere nulla prima, per impattare con l’esposizione con una percezione vergine, per quanto possibile. Sul “vaporetto dell’arte”, corsa speciale riservata ai giornalisti e agli addetti ai lavori, tutti sembrano sapere tutto, e da sempre, del Palazzo e del suo progettista, Marino Auriti: “Un sognatore, un filosofo, un utopista”. E questa pretesa altrui conoscenza, finisce per eccitare il provocatore che è in me.
“Marino, un mito!”. L’autrice di quest’originale e confidenziale affermazione è un esemplare umano fermamente intenzionato a impedire che più parti del suo corpo cedano alla legge di gravità. Le labbra si protendono in orizzontale e verso l’alto come un cornicione a protezione del mento. E le apre spesso le labbra, con un accento da generone romano, perché ha un’opinione su tutto e vuole che il mondo lo sappia. Veste Prada, inaspettatamente. I contenuti che esprime sono tra il greve di tendenza e lo snob claudicante dei nuovi ricchi. Troppo per resistere: “Ma Auriti sarebbe un mito come er pupone, signora?” Abbocca: “Beh… Totti è Totti…, ma te chissei? C’hai ‘na faccia nota, robba de Rai, vero…? Io conosco tutti llà…” No signora solo ospite in Rai, qualche volta, dico presentandomi. Noto che i due che l’accompagnano, giovani e silenziosi, annotano e si affrettano a digitare il mio nome su Google. “Totti è ‘n carciatore de professione, questo era n’architetto de professione…”. No, signora, Marino Auriti di professione era un carrozziere. “Mavvà! Nun ce posso crede…” ribatte con una risata stile sora Ferilli sul sofà. Preciso che l’ho appena letto sulla guida, invitando la griffatissima a farsene una ragione. Lei, insieme ai giovani accoliti, scende a S. Zaccaria e salutandomi: “A professò, ma me stai a pija per ….?” La rassicuro, nel senso che… ha ragione. La cosa sembra divertirla: “Noi romani semo fij de …, ce vie’ spontaneo!“ e ride, ride. Può essere, signora. Ma io sono un romano de Cosenza. Ride ancora più forte: “Che str….! Se vedemo dopo sulla barca, professò?” Uno degli accoliti mi porge un invito. No, non credo. Ma ringrazio e saluto compìto, da gentiluomo meridionale.
Auriti, Gioni e il Palazzo Enciclopedico. Diciamo la verità: Auriti era sconosciuto ai più, forsanche a se stesso. Lo stesso Massimiliano Gioni, curatore della Biennale confessa di essersi imbattuto in lui e nel suo progetto quasi per caso. Sì, era un carrozziere abruzzese che, già avanti con gli anni, approdò negli USA dove depositò, nel 1955, presso l’Ufficio Brevetti il progetto del Palazzo Enciclopedico: uno smisurato museo di 700 metri d’altezza, 134 piani che avrebbe dovuto contenere tutto il sapere umano, dall’invenzione della ruota all’esplorazione della galassia, lasciando spazio anche per le nuove scoperte. Certo, una dimensione visionaria e utopica: usare l’architettura per testimoniare la creatività ingegnosa dell’uomo attraverso un percorso che esaltasse la memoria del passato, la frenesia creativa del presente, le aspettative del futuro. Perfetta metafora per Massimiliano Gioni e la sua iniziativa consapevolmente utopica: “ Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancor più disperati”. Il Palazzo Enciclopedico immaginato da Gioni è articolato su due spazi, all’inizio del percorso dell’Arsenale e nel padiglione centrale dei Giardini: 158 artisti (ma anche artigiani e “artisti a sua insaputa”) che hanno tentato di dare un’immagine del mondo. Un’immagine tanto più efficace se leggiamo gli artisti in combinazione tra di loro e attraverso la contaminazione delle loro opere: installazioni, sculture, video, pitture, labirinti, fotografie, architetture, disegni, bestiari, modellini e quant’altro sia capace di rappresentare visioni, suggestioni, deliri, sogni, incubi e progetti delle umane genti.
Nel Palazzo: da Jung all’igienista dentale, passando per Steiner. Credo che il pubblico della vernice possa essere diviso in quattro grandi categorie: gli psicoanalitici, gli spirituali (depositari cioè dello spirito dell’arte), i mercanti, i residuali (appassionati, giornalisti, sociologi, turisti, fancazzisti). I primi sono i più pericolosi: da evitare nei luoghi senza vie di fuga a portata di mano. Perché vi chiudono in un angolo e vi vogliono raccontare la rava e la fava della loro concezione della psiche. I suddetti vanno in delirio quando al centro della scena trovano il Libro Rosso, o Liber Novus, di Carl Gustav Jung. Scritto e illustrato tra il 1914 e il 1930, fu concepito dallo psichiatra svizzero subito dopo la frattura con Sigmund Freud. L’opera è rimasta sconosciuta a lungo e pubblicata solo nel 2009. Poco distante ci sono le testimonianze di Rudolf Steiner esoterista, filosofo, pedagogo e altro. Con voce vibrante di emozione una coppia di psicoanalitici mi dice: “Ha visto? Ci sono le meravigliose lavagne di Steiner, anche artista e immenso!”. Basta poco a far scattare il provocatore che è in me: “Jung e Steiner artisticamente sono due illustri… dilettanti”. Gli si gela il sorriso in volto. E perfidamente soggiungo: “Sto solo citando Gioni, eh!”. Ma in fondo sono un bravo ragazzo (d’età), per cui indirizzo i due psicoanalitici insieme a due miei conoscenti, appartenenti alla categoria degli “spirituali”, verso le opere della svedese Hilma af Klint, un’astrattista visionaria e medium, e dell’odontotecnica e igienista dentale Anna Zemánková, polacca. All’epoca la categoria non andava in Parlamento e lei gestiva la depressione dipingendo febbrilmente i suoi fantasmi. Poi li perdo di vista i due più due: psicoanalitici e spirituali potrebbero essere ancora a Venezia a scannarsi su interpretazione e fruizione.
Il percorso nel Palazzo Enciclopedico stordisce per l’eccesso di stimoli, ma tre artisti mi restano impressi: Dieter Roth (tedesco notissimo), Papa Ibra Tall (senegalese) e Tino Sehgal (inglese). Il primo rende evidente l’impossibile distinzione tra arte e vita, attraverso un ciclopico videodiario: 130 televisori che proiettano la registrazione di ogni attimo della sua giornata. Il secondo è un portatore sano di Africa e te la passa attraverso arazzi, dipinti e disegni: ti contagia, letteralmente, con il colore. Sehgal del quale registro con VINE e su Twitter un breve frammento di performance, non documenta mai le “sue sculture viventi”, le sue “situazioni costruite”, lasciando che siano i fruitori a farlo prendendo e riprendendo quello che ritengono e nella misura che vogliono. Lui, di suo, non aggiungerà mai “oggetti o immagini a un mondo già ultra saturo di entrambi”.
Il giorno dopo Tino viene premiato con il Leone d’oro come migliore artista della mostra. Un collega giornalista che aveva visto il mio tweet, mi manda un messaggio di congratulazioni, invitandomi a non sprecare il mio talento previsionale: You better bet next time! (“E vedi di scommetterci la prossima volta!”). Grazie Svan, ci farò un pensierino.
Al Padiglione Italia, un odore ti aggredisce. S’intitola Vice Versa l’esposizione italiana: un percorso per raccontare identità, storie e Storia, paesaggi reali e immaginari attraverso le stratificazioni culturali e artistiche del Paese. E con una bella intuizione del curatore Bartolomeo Pietromarchi: un dialogo intergenerazionale tra maestri riconosciuti e artisti delle generazioni successive. Sette coppie d’artisti in sette stanze, liberi di definire l’ambito del dialogo: corpo/Storia per Mauri e Arena, veduta/luogo per Ghirri e Vitone, suono/silenzio per Bartolini e Grilli, … Mi fermo alla seconda coppia solo per ragioni di spazio, ma il Padiglione tutto merita attenzione e tempo dedicato. Mi colpisce, anzi mi aggredisce il lavoro di Luca Vitone: Per l’eternità, una “scultura acromatica monolfattiva”, ispirata alle vicende dell’Eternit, capace di evocare la tragica storia della gente di Casale Monferrato. Vitone crea un “ritratto olfattivo evocativo” dell’eternit, che com’è noto è materiale a base d’amianto. La sua è un’opera da respirare, e infatti s’inala un odore acido, pungente e impregnante realizzato, in maniera mirata, con essenze di rabarbaro svizzero, belga e francese! E questa modalità di fruizione dell’opera rimanda, in maniera totalmente coinvolgente e sconvolgente, al modo stesso attraverso cui l’Eternit uccise e uccide: l’inalazione. Qui è odore, lì furono polvere e fibre d’amianto. Un’opera potente esaltata in qualche modo dalla recente conferma di condanna dei vertici aziendali della società Eternit. Sì: arte, storia e cronaca si incrociano e si saldano.
Se Marc ed Elton il 31 di maggio… Appena entro nella Fondazione Cini, m’imbatto nel noto e discusso artista inglese Marc Quinn. M’imbatto non è esatto. In realtà sto camminando all’indietro e vado a sbattere contro qualcuno che sta facendo analoga, e incauta, cosa. Sento un “Sorry” e contemporaneamente mi vedo circondato da diversi uomini. Hanno tutto l’aspetto palestrato della Security: non proprio minacciosi, ma neanche rassicuranti. Ma tra di loro appare una faccia che ha qualcosa di noto, molto noto, enormemente noto. L’enormemente noto mi tende la mano e ripete “Sorry”. E mi trovo a stringere la mano a Elton John, farfugliando qualcosa sul mio andare di fretta. Insomma ero capitato nel mezzo di una visita privata alla mostra, riservata ai grandi collezionisti. e davanti a me avevo non solo Quinn ma anche la rockstar che, in ogni occasione, mette in fila e in impaziente attesa centinaia di migliaia di fans. Ma, a parte scattare una foto a lui e all’artista pop, l’unica cosa che mi urgeva davvero era tornare alla Biennale, alle opere, alle radiose conchiglie giganti, del medesimo Quinn, sdraiate sulla banchina dell’isola. Volevo fermare l’attimo con la mia Nikon prima che cambiasse la luce, prima che il profilo di S. Marco fosse nascosto dalla pioggia che aumentava, dalla pastosa nebbia lagunare che si alzava: avevo anch’io la mia “Candle in the Wind” che non doveva spegnersi. E poi c’era Fragile da vedere, lì a pochi metri, prima che chiudesse. Perché è vero che Venezia è senza tempo, ma il tempo non lo sa e vola via lo stesso.
Quei messaggi che non abbiamo voluto raccogliere. Fragile è una rassegna, curata da Mario Codognato, in un posto suggestivo dal nome suggestivo: “Le stanze del vetro”. E ci sono firme importanti: Marcel Duchamp, Joseph Beuys, Giuseppe Penone, Joseph Kosuth, Luciano Fabro, Mario Merz, Damien Hirst, Jannis Kounellis… ma è un suono, un battito, un ansimare, un tramestio di rumori e voci a risucchiarmi verso un’installazione di Cyril de Commarque. Mai conosciuto e neanche mai sentito prima. La sua è un’installazione che usa sapientemente le nuove tecnologie: bottiglie trasparenti e tubicini flessibili che emulano un sistema vascolare. Nelle bottiglie pulsano rosse membrane, come pulsa un cuore, come respira un polmone. E il ritmo del battito che diventa più forte man mano che mi avvicino va in totale sincronia con il mio battito cardiaco. E improvvisamente la senti, la “avverti” la barca nella quale quei cuori hanno pulsato, quei polmoni hanno respirato e quelle voci intorno e avvolgenti sembrano continuare a lanciare tutti quei messaggi che non abbiamo saputo e voluto cogliere, tutti quei messaggi che abbiamo lasciato chiusi nelle bottiglie. Alla deriva. Si chiama MIGRANTS l’installazione e mi entra dentro. Proprio in tutti i sensi.
Assaggi di Biennale. Solo assaggi. Ho tentato di raccontare l’attesa, la scoperta e l’eccitazione, ma solo l’esperienza diretta entra nelle vene. E ci sarebbe da dire del padiglione francese, di quello americano e di quello coreano. E della serie infinita di eventi collaterali: Ritorni la prima mostra remake alla fondazione Prada, Stright di Ai Weiwei alle Zitelle e SACRED nella Chiesa di S’Antonin, di Voice of the Unseen (e cioè dell’arte cinese indipendente), di Love Me Love Me Not (artisti dell’Azerbaijan) e altro ancora. Solo un flash sull’omaggio a Manet a palazzo Ducale: muovendo dai grandi veneti (Tiziano, Tintoretto, Lotto…) Manet, sedotto da Venezia, reinventa il modo di raccontarla e nel far questo reinventa il modo di raccontare la seduzione del paesaggio.
Bisogna andarci per capire perché Biennale e Venezia sono binomio inscindibile che tutto inglobano e sublimano in forma d’arte: metabolizzano anche uno come Fabio di Ojuara, un brasiliano che si aggira in perizoma e con tavoletta di cesso al collo, sul quale ha scritto qualcosa di manzoniano: “Every Shit is Art”. Manzoni Piero, of corse!
Sì andateci, se potete. E provate a dare la vostra personale risposta al tema di fondo “Quale spazio è concesso all’immaginazione, al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca assediata dalle immagini esteriori?“ Pare che Tino Sehgal, premiato con il Leone d’Oro, abbia dato la risposta più convincente.
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