«Caramelle non ne voglio più… Le rose e i violini questa sera raccontali a un’altra»! Così prese a gridargli lei un giorno – al colmo della sopportazione per le sue continue promesse, le ipocrite rassicurazioni prive di esito – facendo suoi i celebri versi cantati da Mina, che redarguiva un Alberto Lupo disperatamente affascinante, ma non abbastanza da stordire con le sue «parole» un’amante appassionata e esigente. Da mesi ormai lui le giurava che sì, avrebbe detto tutto a sua moglie, l’avrebbe lasciata per rifarsi una vita con lei: «non stasera [“perché sono stanco / ho mal di testa / il figlio ha la varicella”… Le scuse si sprecano], ma domani, tranquilla». Un domani, però, che non arrivava mai. Mesi a fantasticare la nuova vita insieme: in mano, alla fine, solo weekend e feste consacrate da sola. Un pugno di mosche. Ora basta, però.
Le «parole» d’altronde, le «scuse», possono essere tante davvero. Un fiume infinito quanto inconcludente. 1.183 i tweet di «scusa» postati da aziende, Vip e persone comuni al centro dello studio di Ruth Page, pubblicato sul «Journal of Pragmatics»: risultato? I Brand si scusano 9 volte tanto il valore medio: 8,6 per l’esattezza le volte in più in cui si usa il termine «sorry» rispetto all’utilizzo medio individuale. Di «scuse» o «mi scuso», le aziende si riempiono la bocca 7,4 volte di più del normale. E «rincrescimento», «rammarico», «dispiacere» – l’inglese «regret» – vanno via come il pane: ne infarciamo il dialogo con una frequenza 37,5 volte maggiore.
Dev’essere davvero tutta una doglianza se, in due anni, la percentuale di tweet dei Brand in risposta a singoli utenti – specie in casi di lamentele – è salita dal 42% al 59%. Ma è davvero, questa, una “comunicazione che assiste”, una “assistenza dialogante”, capace di mettersi in gioco? «Quantità e qualità» – si ricorda – «non sono la stessa cosa». Spesso questi messaggi di scuse sono fumo negli occhi. Palliativi «artefatti» e «ipocriti», messi lì al volo tanto per tacitare le coscienze – soprattutto la propria – per quietare lamentele e proteste: a torto o ragione non importa, tanto vince chi urla più forte ed è costui, con chi si è tirato dietro nella “rissa”, a andar tranquillizzato.
Alla ben e meglio, sia chiaro: a mo’ di sedativo inconcludente. «Le compagnie raramente confermano quanto hanno detto scusandosi», continua lo studio. «L’obiettivo è solo oscurare l’offesa iniziale»: si lancia il sasso ritirando la mano. «Parole, parole, parole»
Le scuse raffazzonate però non servono. Chi ama non si lascia “intortare”: non accetta – fatte salve eccezioni… – di finir confuso e annebbiato dall’ubriacatura del momento, senza esser preso sul serio: esige ascolto nel proprio sfogo, comprensione della gravità del problema confidato, aiuto vero. Se così non è, è perché il flusso di comunicazione si è inceppato: qualcosa si è inceppato nella mia testa e nel mio cuore.
«Assistere comunicando» non significa riempire il mio prossimo con milioni di messaggi che non portano a nulla. Meglio una risposta sensata dopo ore che un messaggio solo in apparenza personalizzato, spontaneo, ma in realtà automatico, preimpostato in versioni ugualmente cieche.
Un flusso di «parole» da ridefinire nel suo incessante stillicidio, una ruota decisamente da oliare: perché? E come? Il “deragliamento” dell’incessante locomotiva è certo conseguenza del ripetere automatico, a mo’ di mantra imparato a memoria come una tabellina o una poesia tra i banchi di scuola, il principio «Social, solo Social». «Numeri, solo numeri»: un egoismo non altruista che aiuta il cliente col solo scopo dell’abbattimento di tempi e costi, di massimizzazione del profitto, in un business «old style». Così però si «gestisce la persona», non «il problema». Si dimentica che si sta trattando con un amico, una persona vera, non un contratto, un account Twitter da smaltire, con l’ansia frenetica di dover battere in Response Time il competitor, senza più spazio per l’ascolto.
Anche però il dar retta a chi non merita inibisce la vera «devozione» verso il cliente: rispondere alle lamentele e risolvere i problemi non significa piegarsi al presunto potere di un tweet che ne accende altri cento per il puro gusto di una polemica fine a se stessa.
Sta lontano dall’arrogante presunzione del troll, che fa presto a infiammare flame, a trasformarsi in lucida follia del branco ove qualunque azione è un #EpicFail: consuma energie da far esplodere e liberare positivamente, invece, verso chi davvero richiede attenzione, assistenza, “amore”. «Don’t feed the troll»: ignorare questi e valorizzare quelli è necessario per potersi dire #SociallyDevoted. In mancanza di un’autentica Social Education si rischia la paradossale mancanza del goal, del vero Social Care. Travolti dai numeri, si finisce per ripetere scolasticamente in automatico anche il principio del reply, della risposta ai commenti negativi: che però l’ascolto lo richiede, non lo implica già. “Guidando la locomotiva” devo ricordarmi di accender la testa: scegliere come “fermate del treno” solo chi fa, non chi distrugge – selezionando e riconoscendo chi davvero ha bisogno di me.
«I Brand non sanno quel che fanno»: a forza di scusarsi, perché in generale “si è imparato che si fa così” e in particolare anche coi troll, le espressioni perdono di efficacia, si fanno «parole, soltanto parole». Inutili e tanto più dannose per chi così più pericolosamente perdiamo di vista: il “prossimo” davvero bisognoso di assistenza.
Soluzione? Semplice: «Basta twittare così tanto». Privilegiamo la qualità alla quantità: asteniamoci dall’indifferenza del passato, così come dall’opposto eccesso di una “attenzione” che però, per l’inautenticità dei propri meccanismi motivanti, si rovescia di nuovo nel suo contrario, in un tango che lascia storditi. «Scusa se ti ho chiesto scusa»: siano queste le tue «ultime parole famose». Basta bla bla: cinguetta fatti.
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