Assistere il cittadino per resistere alla crisi: ecco le “100 città resilienti”

Voglio fare il CRO. No, bonifici e pagamenti, stavolta, non c’entrano.

Il «CRO» è il «Chief Resilience Officer»: una sorta di «amministratore delegato per la resilienza».

Di che si tratta? Confesso, non lo sapevo neanch’io fino a pochi giorni fa, quando il sempre attento Roberto Favini me lo ha segnalato. «Forse può interessarti»: eccome! Il «Chief Resilience Officer» è un consulente di alto livello deputato ad affiancare il sindaco o l’amministrazione cittadina nel progetto di «creazione della resilienza» in città.

RF100_180x150BADGE_v1Città resilienti? Eh sì, proprio questo è il nome dell’iniziativa «100 Resilient Cities» promossa dalla Rockefeller Foundation, per mettere a disposizione di città selezionate ad hoc strumenti, finanziamenti, competenze tecniche e altre risorse per la realizzazione nelle aree urbane di ciò che s’intende col termine «resilienza»: resistere e superare le sfide, sopravvivere (e vivere meglio) oltre la crisi. Qui, applicata alle comunità o ai gruppi sociali, specie in seguito a gravi catastrofi, resilienza è la «capacità di individui, comunità, istituzioni, imprese e sistemi di una città di sopravvivere, adattarsi e crescere indipendentemente dalla natura di eventi stressanti cronici ed eventi traumatici che si trovano a dover affrontare». Non si tratta dunque solo di catastrofi – incendi, terremoti, alluvioni – ma anche di situazioni ricorrenti come carenze idriche, alimentari, forme di violenza endemica o elevati tassi di disoccupazione.

«Pianificare la resilienza» significa dunque non solo «adeguarsi», ma cambiare innovando e costruendo risposte nuove: fattore essenziale per «lo sviluppo sostenibile e durevole», a vantaggio di tutte le fasce di cittadini, specie quelle più povere e vulnerabili. In questo, il compito del nostro «CRO» consiste nel «coinvolgere le parti interessate, provenienti da enti governativi e diversi settori della società, e accedere a tutti gli strumenti e gli esperti disponibili per la creazione di resilienza, al fine di sviluppare una apposita strategia».

Abbiamo visto come il concetto di resilienza – capacità di mantenere l’equilibrio nonostante le avverse forze esterne, contrastandole e raggiungendo così il traguardo – s’imponga a sorpresa ma definitivamente nella riflessione di chi cerca di individuare exit strategies dal buio della crisi: che coinvolge tutti – individui, aziende, realtà politiche, economiche e sociali. E come dunque, in questo nuovo to-do dell’esser resilienti, entrino in gioco fattori geneticamente distintivi come il recupero della propria «autenticità», di «trasparenza» e affidabilità, nonché un altissimo livello di «dedizione sincera all’altro» che lato azienda significa «customer centricity», cura dei clienti, attenzione ai loro bisogni. Oggi, Social Care: uno dei driver essenziali di resilienza.

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Una simile primarietà del concetto non sfugge dunque nemmeno quando si parla di amministrazione locale: di gestione delle risorse entro cui viviamo. Così la città – Smart City – dev’essere resiliente: deve curare e curarsi del proprio patrimonio e dei suoi cittadini, «comunicando e coinvolgendo» il network in un progetto concreto di superamento delle criticità ordinarie e straordinarie e miglioramento globale della qualità di vita. La città che «ce la fa» è quella che «comunica, coinvolge, cura» la propria rete civica: in termini anzitutto di riqualificazione urbana e delle periferie.

35 le città di tutto il mondo invitate a far parte del network di «100 Resilient Cities»: tra queste anche Milano, scelta «per l’impegno dei propri rappresentanti nella creazione di resilienza e per il modo proattivo e innovativo con cui hanno concepito le sfide che la città si troverà a fronteggiare», ha spiegato Michael Berkowitz, Presidente del progetto. Tra le nuove città selezionate (altre erano già state scelte a giugno, tra cui Roma) Atene, Parigi, Singapore, Londra, Boston. Al network saranno garantiti «orientamenti logistici e finanziari», un Chief Resilience Officer che «guiderà la città negli sforzi da affrontare per il «conseguimento della resilienza», supporto tecnico per la realizzazione di una «resilienza olistica che tenga conto delle specifiche esigenze di ogni singola città».

Un network in connessione vera e globale, dunque, ove ogni passo è sostenuto e aiutato dal resto della rete, che fa scudo contro le avversità per proteggersi e andare oltre le difficoltà. Non si tratta solo del cosiddetto DDR, «riduzione rischio catastrofi»: per il suo approccio globale e «proattivo», il progetto «100 Resilient Cities» mira non solo alla «riduzione del danno causato da pericoli naturali», ma alla gestione integrata di «eventi traumatici e stressanti, criticità conseguenti a ondate economiche e sociali negative, sia nel breve che nel lungo periodo. «Prosperare in un mondo privo di equilibrio»: questo l’obiettivo della città resiliente. Un traguardo apparentemente impossibile da raggiungere ma, proprio per questo, ancora più sfidante e stimolante per menti aperte, per amministratori dotati di ampie vedute, con una vision globale: gli unici, peraltro, a poter auspicabilmente sperare di sopravvivere nel mondo di oggi.

Anche e soprattutto la «cosa pubblica» – l’amministrazione di essa – deve dunque mostrare in sé quella resilienza che, lungi dall’esser concetto filosofico generico o mero giochetto da manager autocompiaciuti, è il monito più concreto e attuale per l’uomo oggi. E l’attenzione all’altro – al cliente come al cittadino – ne è parte decisiva. Se anche le città si dotassero di un vero «Social Care», migliorerebbero all’istante la qualità di vita dei cittadini – dunque la propria vita. La sfida per divenire una delle «100 città resilienti» è aperta. Ci auguriamo di vedere la lista sempre più “parlare italiano”.

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