Come cambia il lavoro ICT

Le tecnologie digitali cambiano il mondo del lavoro. È un fatto ormai assodato e indiscusso. Realtà come Uber o l’inarrestabile avvento delle fabbriche robotizzate stanno ampiamente dimostrando quanto radicali e pervasive siano le trasformazioni indotte dalla diffusione capillare di queste tecnologie.

Peraltro, c’è un aspetto di questa trasformazione del quale si parla poco, forse perché meno “visibile” a livello mediatico e meno emblematico: la trasformazione delle professioni e del lavoro ICT. Si tratta di cambiamenti con molte sfumature e elementi di complessità. Ma sarebbe un grosso errore pensare che il mondo delle professioni e dei servizi ICT non sia esso stesso profondamente impattato dalle tecnologie che lo definiscono e caratterizzano.

L’effetto Uber

Al General Meeting del Cefriel, tenutosi alcuni giorni fa al Politecnico di Milano, il CTO di Airbus segnalava che oggi, grazie l’utilizzo sempre più diffuso della rete, è possibile immaginare che diversi componenti aeronautici o anche interi (piccoli) aeroplani possano essere progettati da singoli o team indipendenti che operano sulla rete. Alcuni addirittura potrebbero lavorare gratuitamente per il piacere di farlo o perché interessati a promuovere le proprie capacità.

La rete è quindi un meccanismo di recruiting di intelligenze e di professionisti che possono anche non operare all’interno di imprese o di tradizionali percorsi professionali. 

Si tratta di una sorta di “effetto Uber allargato”. Si potrebbero addirittura immaginare processi produttivi totalmente decentralizzati, caratterizzati dall’aggregazione spontanea di professionisti, artigiani, singoli lavoratori che usano la rete e moderne tecnologie come il 3D Printing.

È una idea per certi affascinante, “antisistema” e non convenzionale che peraltro non nasce oggi. Alcuni segnali erano già presenti da tempo in fenomeni come il mondo dell’open source.

Open Source

Il mondo dell’open source è stato tra i primi (se non il primo) ad adottare in modo diffuso un paradigma di collaborazione basato sull’utilizzo di Internet. Molti sono i prodotti oggi distribuiti con licenza open source. E moltissimi sono i professionisti e le imprese che vendono prodotti e soprattutto servizi utilizzando quest’approccio.

L’idea di fondo è che il software debba essere considerato un bene condiviso che chiunque deve poter “vedere”, modificare e ridistribuire liberamente (nel senso di “free speech”, non “free beer”). Di conseguenza, chiunque può operare su un prodotto software open source sia gratuitamente che a pagamento, a livello individuale o attraverso molteplici forme di collaborazione, più o meno stabili, che si sviluppano sulla rete.

Gli ecosistemi. le app e l’API Economy

Un altro fenomeno che sta cambiando il modo secondo il quale si sviluppa software e quello degli ecosistemi digitali, delle app e della API Economy. In questo contesto, non esistono più applicazioni software monolitiche, ma esse risultano dalla “aggregazione” (il cosiddetto mashup applicativo) di una molteplicità di servizi di back-end (le API), ciascuna delle quali offre specifiche funzionalità. Una stessa applicazione può sfruttare API sviluppate da soggetti diversi per ottenere l’effetto combinato desiderato. Inoltre, molte applicazioni software di un tempo vengono rimpiazzate da collezioni di app mobili in grado di svolgere individualmente poche specifiche funzioni e che, allo stesso tempo, possono essere sviluppate anche da singoli programmatori che abbiano accesso alle API necessarie.

In generale, l’approccio a API cambia il modo secondo il quale si concepiscono, sviluppano e “vendono” i prodotti software.

È più facile anche per un singolo soggetto sviluppare una funzione specifica concepita come API e magari renderla disponibile tramite public cloud. Di conseguenza cambiano i modeli di business e, se l’argomento viene spinto alle estreme conseguenze, anche la struttura della filiera e del mercato nel loro complesso.

La disintermediazione digitale e il ruolo dell’impresa

In generale,

Internet in moltissimi casi azzera i costi di intermediazione e ne cancella fin la necessità: è questa la rivoluzione, per certi versi un po’ preoccupante, indotta dalla rete. 

Scompaiono molte professioni, cambiano le filiere produttive, cambia la percezione di valore di un bene. In particolare, il fatto che “sulla rete” sia possibile trovare persone che hanno voglia di offrire un contributo anche gratuitamente per passione, per dono o per dimostrare la propria bravura sta inducendo molti a pensare che quindi certi servizi o prodotti debbano necessariamente essere gratuiti. Inoltre, viene messa anche in crisi l’idea e il valore stessi del concetto di “impresa”: se la conoscenza e le persone stanno “sulla rete”, se lì si coordinano e organizzano, a che serve l’impresa classica?

Tutto ciò accade anche e soprattutto nel mondo del software dove sempre più si tende ad assumere che lo sviluppo di prodotti informatici possa avvenire a costi bassi se non nulli. Interpretazioni distorte di concetti come “open source” o “open innovation” portano a immaginare che tutto si possa trovare liberamente offerto da qualcuno sulla rete. È una pericolosissima illusione che danneggia il mercato e, soprattutto, i giovani e i professionisti dell’ICT.

Peraltro, tutto ciò è anche indotto da una facile retorica dell’innovazione per la quale “tutto si può fare”, “chiunque può fare qualunque cosa” e “basta un hackathon e dei giovani vogliosi per risolvere i problemi” (magari gratuitamente perché per loro è un modo per “farsi conoscere”). È un tema molto complesso sul quale riflettere con grande attenzione. Anche perché altrimenti non potremmo mai capire come un numero insufficiente di giovani decide di scegliere le professioni legate all’ICT che, evidentemente, appaiono poco attrattive e, anzi, penalizzanti o penalizzate sul piano economico e di sviluppo professionale.

Dobbiamo certamente cogliere le opportunità straordinarie offerte dalla rete. Tuttavia, dobbiamo anche prestare la massima attenzione alle distorsioni che rischiano di minare e danneggiare risorse e capitale umano straordinari per lo sviluppo del nostro Paese.

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