I dieci anni persi nel digitale in Italia

Questa mattina sulla timeline di Twitter è passato un commento di Ian Bremmer che mostrava una mappa delle velocità medie di connessione ad Internet in Europa. Nel tweet, Bremmer si chiedeva “What’s the problem with Italy?”

Domanda legittima che mi ha obbligato a fare mente locale su quel che è successo nel nostro paese nel corso degli ultimi dieci anni.

Mi pare si debba amaramente ammettere che sono stati dieci anni persi, nei quali, per una serie di sciagurate concause, tutta la politica del digitale è rimasta paralizzata. E così, mentre gli altri correvano, noi siamo rimasti al palo.

Dalla fine degli anni ‘90 al 2005

La fine degli anni 90 e la prima metà degli anni 2000 hanno visto l’esplosione di Internet e delle “dot-com”. Sappiamo bene che quel fenomeno fu per certi versi gonfiato. Ma lo è stato in tutti i paesi occidentali. Il problema italiano è che, dopo aver fatto alcuni passi positivi in avanti, siamo usciti da quella bolla rimanendo immobili.

Provo a spiegarmi.

L’IT nella pubblica amministrazione

Al di là di considerazioni di carattere politico (che non mi competono), da tecnico non posso non riconoscere quanto di positivo si fece in quel periodo.

A fine anni 90, il Piano di Azione di Bassanini (con i finanziamenti UMTS) mise in campo una progettualità forte che, come ho avuto occasione di segnalare, aveva in modo lungimirante identificato le linee di azione e di sviluppo per le amministrazioni italiane.

Nel governo successivo, che per la prima volta vedeva la presenza di un Ministro per l’Innovazione (Lucio Stanca), pur con tante difficoltà e anche contraddizioni, vennero messe in campo azioni profonde di rinnovamento. Ne cito a memoria alcune:

  • Bandi per la PA sui fondi UMTS.
  • Codice delle Amministrazioni Digitali.
  • Sistema Pubblico di Connettività.
  • Legge sull’accessibilità dei siti.
  • Linee guida sull’Open Source e il riuso.

Fu un’azione esente da errori e critiche?

No, ma il Paese si stava muovendo.

Qualcosa accadeva e, seppur con limiti e difetti, si stava avanzando sul fronte dell’innovazione digitale. E lo dico ammettendo le mie colpe, visto che a quel tempo non lesinai critiche a quell’assetto e a quella azione di governo.

E poi?

E poi, per dieci anni (dal 2006 in poi) non è successo nulla. O, peggio, invece di rafforzare e migliorare quanto era stato creato, abbiamo progressivamente smontato o nei fatti indebilito l’impianto che nel periodo precedente era stato in grado di smuovere la macchina pubblica.

Le competenze digitali

In Italia, dopo l’esplosione degli stipendi nel settore del digitale di fine anni ’90, abbiamo reagito alla bolla di Internet considerando le professioni legate alle tecnologie come marginali e irrilevanti (ricordate il famoso “IT doesn’t matter”?). Abbiamo depresso le gare d’appalto puntando solo al massimo ribasso, costringendo le imprese fornitrici a comprimere salari e ignorare la qualità. E di riflesso, lo stesso è accaduto nel procurement delle imprese private.

Morale, non più tardi di questa mattina possiamo leggere sul Corriere quanto segue:

IT

Come possiamo innovare le nostre imprese e amministrazioni senza le competenze giuste? Possiamo permetterci di formare tra i migliori ingegneri d’Europa e poi dare loro stipendi che sono del 40% inferiori (e se consideriamo la tassazione i conti peggiorano ancora di più) rispetto a quanto possono percepire all’estero? E come possiamo attrarre e valorizzare capitale umano di qualità se l’IT è considerato una commodity da acquisire al massimo ribasso?

In dieci anni abbiamo mortificato imprese e professionisti del settore.Abbiamo disincentivato i giovani a scegliere questa professione. E oggi, anche qui, ci troviamo ad essere fanalino di coda.

Il mondo delle telecomunicazioni

Alla fine degli anni 90, con la costituzione di Fastweb, l’Italia si mise in prima fila nello sviluppo delle reti di nuova generazione. Forse era troppo presto, ma indubbiamente eravamo leader.

Poi ci siamo fermati.

Non ci sono stati più significativi investimenti in infrastrutture e, soprattutto, si sono nascosti problemi strutturali sotto la scusa del “non c’è domanda, basta quel che abbiamo”.

In realtà, tutte le infrastrutture strategiche come le reti di telecomunicazione nascono sulla base dell’analisi della domanda latente e sulle previsioni di crescita del traffico. Nel nostro paese, il tragico combinato disposto di una miopia cronica di tanta parte della nostra classe dirigente e di una debolezza strutturale delle nostre imprese ha bloccato nei fatti lo sviluppo delle reti, con l’eccezione del settore del mobile che ha diverse dinamiche della domanda e dell’offerta.

Morale, oggi, nel 2016, la velocità di connessione media nel nostro paese è inferiore a quella di tutti gli altri paesi europei a cominciare da Spagna e Portogallo. Forse che loro hanno una domanda superiore alla nostra?

Quindi, che facciamo?

Non bastano decreti. Non basta dichiarare la centralità del digitale. Serve che istituzioni pubbliche e imprese private si rendano conto del ritardo nel quale ci troviamo e facciano quello scatto che ad oggi ancora manca o non è adeguato alla criticità della situazione.

  1. Una volta per tutte, si decida e si attui, velocemente e decisamente, unastrategia del Paese sulla banda larga. Dobbiamo recuperare il tempo perso e non possiamo più permetterci ritardi e discussioni sterili. Il punto di partenza sia semplice: “il paese ha bisogno di NGN fisse e mobili, subito” e sia questo il criterio per capire che fare e con chi.
  2. Sul fronte dell’innovazione digitale, si costituisca una governance forteche imprima con decisione visione, direzione e velocità ai processi e ai progetti di cui parliamo da anni. Il nostro problema non è semplicemente fare nuovi decreti, ma accelerare il moto della “macchina” che invece oggi procede ancora troppo lentamente rispetto alle sfide e alle esigenze del Paese.
  3. Ridiamo qualità ai processi di gestione e procurement dell’IT sia nel pubblico che ne privato.

So bene che dire che queste cose è facile per chi non le deve gestire. E so anche che è facile in questo modo attirarsi critiche o “antipatie”.

Ma i fatti sono fatti e il bene del Paese viene prima di tutto. Adesso bisogna muoversi e fare. Tutto il resto è polemica che lascia il tempo che trova, e che non serve a costruire il futuro del nostro Paese.

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