L’Università Italiana e le vie della forza

In questi giorni le polemiche che da sempre circondano le università italiane si sono riaccese attorno a due temi: la fuga dei cervelli e la VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca, cioè la procedura che è stata definita per valutare la qualità del lavoro di ricerca svolto dagli atenei italiani).

Per quanto riguarda il primo tema, si ripetono casi di giovani che a torto o a ragione si sentono rifiutati dalle università italiane e emigrano verso atenei e centri di ricerca all’estero.

Per quanto concerne la VQR, è in corso una protesta diffusa dei docenti e ricercatori universitari motivata da una molteplicità di fattori tra i quali ne ricordo qui tre: lo stato in cui si trova in generale l’università e il personale che in essa opera; la natura stessa delle procedure e dei modelli che sono stati adottati per lo svolgimento di questa valutazione; il perdurante blocco degli scatti stipendiali del personale dell’università (unico caso in tutto il pubblico impiego) che, come ricorda il Presidente della CRUI, produce …

effetti sproporzionati, che vanno ben oltre il tempo limitato del blocco degli scatti, proiettandosi in maniera rilevante sull’intera vita lavorativa dei docenti nonché sul loro futuro trattamento pensionistico. Questi effetti danneggiano maggiormente i giovani ricercatori e i docenti nella progressione iniziale della carriera, incidendo, peraltro, su un quadro retributivo della docenza universitaria italiana fortemente penalizzato e penalizzante rispetto ad altri Paesi Europei, che mina significativamente l’attrattività del nostro sistema nei confronti delle eccellenze della ricerca.

Da qualunque parte li si guardi, i problemi che affliggono l’università italiana sono complessi e articolati. Vi sono torti e ragioni che non è possibile assegnare in modo semplicistico e univoco a questo o quel lato della barricata. L’ho sperimentato nella discussione sofferta e travagliata che in questi giorni si è sviluppata anche nel mio ateneo e nel mio dipartimento.

Come affrontare il tema? Come “venirne” fuori?

Per rispondere a questa domanda è necessario innanzi tutto evitare i rischi delle semplificazioni e banalizzazioni o, peggio, delle visioni unilaterali e parziali.

Alcuni snodi

Volendo essere il più possibile sintetici, riassumerei la situazione attraverso i seguenti punti (per dati e valutazioni quantitative a supporto, è sufficiente avere la pazienza di spulciare i siti di OCSE, ISTAT e MIUR, come ho già peraltro fatto in passato):

  1. I fondi per le nostre università sono nel complesso inferiori rispetto a quelli disponibili negli altri paesi, sia per ciò che concerne il fondo di funzionamento ordinario che i fondi della ricerca. È inutile girarci in tondo: è così. E non è vero che all’estero non ci sia il finanziamento pubblico. In Italia soffriamo due volte: in primo luogo abbiamo poche aziende di dimensioni adeguate per sostenere investimenti in ricerca e innovazione; in secondo luogo, abbiamo un settore pubblico che complessivamente investe in ricerca e formazione una quota di PIL inferiore a quella di tutti i paesi con i quali ci confrontiamo.
  2. Non è vero che abbiamo troppe università e non è vero che abbiamo troppi docenti. Anche in questo caso, basta verificare i dati relativi a numero di studenti, di docenti e di atenei negli altri paesi. Il vero problema è che nel nostro paese abbiamo pensato di sviluppare l’offerta formativa superiore creando università e sedi locali poco competitive e sottodimensionate. Ciò non ha fatto altro che aumentare sprechi o investimenti poco produttivi, anche se in realtà ci sarebbe grande bisogno di potenziare l’offerta. È un paradosso che pochi hanno voluto o saputo evidenziare, sommersi da un lato dalla retorica delle “autonomie” e del “federalismo” e, dall’altro, dal moralismo semplicistico della lotta al “malaffare”.
  3. Non è vero che la piramide rovesciata sia una anomalia italiana. Nescrissi anni fa: per rendersene conto è sufficiente da un lato vedere gli organici di una qualunque università di prestigio a livello internazionale con la quale veniamo quotidianamente confrontati e, dall’altro, ragionare sul fatto che una università non è una azienda con un capo e una struttura piramidale di comando, ma una comunità culturale dove tutti hanno l’opportunità (non l’automatismo!) di crescere in seniority (e ci mancherebbe altro non fosse così!)
  4. La pressione su costi e tariffe, il blocco degli scatti e la stretta sul turnover colpiscono in primo luogo i giovani. Ci lamentiamo della fuga dei cervelli, ma non ci rendiamo conto che queste misure colpiscono in primo luogo proprio i più giovani che vedono restringersi gli spazi di accesso alla carriera universitaria, restando per di più drammaticamente penalizzati dal punto di vista salariale. Cosa facciamo per attrarre realmente i migliori, italiani o stranieri, nel nostro paese? Nell’impresa, se consideriamo per esempio il settore dell’ICT, forse che l’irragionevole e folle compressione delle tariffe professionali aiuti a trattenere e attrarre i migliori?
  5. La burocratizzazione sta bloccando le università. Come il resto del pubblico impiego peraltro, gli atenei stanno soffocando sotto norme burocratiche cervellotiche che stanno paralizzando il loro funzionamento. È tipico della cultura italiana: per colpire “i corrotti” si ingessa a dismisura qualunque processo. Per esempio, come è possibile richiedere ad un ateneo di approvigionarsi di apparecchiature informatiche solo tramite la CONSIP?
  6. Le università italiane mancano ancora di apertura e meritocrazia.Devo dirlo perché è vero: troppo spesso le università italiane sono piagate da familismo e, in generale, da comportamenti e scelte inaccettabili e incompatibili con i bisogni e le aspettative del nostro Paese. Credo che più che nuove regole (troppo spesso cervellotiche e controproducenti) serva un cambio di passo degli accademici, a cominciare da quelli che hanno maggiore seniority e responsabilità. Allo stesso modo va detto in modo netto che questi fenomeni non si presentano con la stessa intensità ovunque: è vitale e giusto esaminare i diversi casi e non lasciarsi trascinare da facile retorica e da inutili e controproducenti semplificazioni e generalizzazioni.
  7. Il problema non sono i giovani che vanno all’estero, ma la nostra incapacità di attrarne (che include anche il fatto di trattenere i nostri migliori). Le statistiche sulla fuga dei cervelli mostrano che in realtà la percentuali di giovani italiani che vanno all’estero è inferiore a quella di altri paesi. La domanda è quindi cosa stiamo facendo per rendere più attrattivo il nostro Paese?
  8. Non sappiamo usare fondi europei e strutturali. Inoltre, non stiamo investendo in ricerca e innovazione. Un male endemico del nostro paese è l’uso improduttivo, inefficiente e familistico dei finanziamenti pubblici e una diminuzione continua, cronica e infinita dei fondi per la ricerca. Come può un paese moderno non investire in ricerca? Se il tema è come migliorare la gestione dei bandi, si può ricorrere almeno in una prima fase a strumenti automatici come il credito di imposta in ricerca e innovazione, non sul delta degli investimenti (così come previsto dalla normativa corrente), ma sul suo monte complessivo. Inoltre, si potrebbero prevedere meccanismi automatici che complementino con fondi nazionali i finanziamenti percepiti su base competitiva a livello europeo. Di fatto, è ciò che accade in altri paesi con i quali veniamo continuamente confrontati. In questo modo non saremmo vittime di meccanismi valutativi inefficienti, interminabili e distorti.
  9. Manca una domanda qualificata di ricerca e innovazione (sia pubblica che privata). Se per esempio penso al mio settore, l’ICT, una domanda qualificata di prodotti e servizi innovativi spingerebbe gli atenei e i centri di ricerca ad una maggiore qualità, a rinnovare le proprie aree di ricerca, a confrontarsi con le sfide del mercato da un lato e delle altre università a livello internazionale.
  10. Il sistema nel suo complesso va meno peggio di quel che si potrebbe immaginare. Le statistiche relative alla produzione scientifica o alla valutazione dei nostri laureati da parte dei datori di lavoro europei mostrano che il nostro sistema regge molto meglio di quel che pensiamo. Non è vero che le nostre università e i nostri laureati “fanno schifo”. E quindi non è vero che il sistema nel suo complesso ha prestazioni inaccettabili.
  11. Il sistema ha forti differenze al suo interno che non vengono mai considerate in modo serio: non esiste “l’università”, esistono “le università”; non esiste “il dipartimento”, esistono “i dipartimenti”; non esiste “il docente/ricercatore”, esistono “i docenti/ricercatori”. In tutti questi ambiti le differenze possono essere molto significative. Un sistema di valutazione che premi chi più si impegna sul fronte della qualità è non solo necessario, ma anche moralmente e socialmente doveroso. E la valutazione di qualità deve avere un impatto concreto sul finanziamento e sulla gestione di un ateneo, così da renderlo realmente “accountable” rispetto alla società e ai cittadini.
  12. La VQR attuale ha grandi limiti. Purtroppo, questo è un altro fatto indubbio: il meccanismo valutativo che è stato messo in piedi ha limiti tecnici, concettuali e procedurali che sono stati messi in evidenza da molti osservatori. Come scriveva un mio collega sulla lista del dipartimento, “misurare la febbre con un termometro che non funziona può causare disastri”. A scanso di equivoci, per quel che mi riguarda io non mi asterrò da questa valutazione. Tuttavia, bisogna con schiettezza riconoscere che i suoi principi di funzionamento devono essere sostanzialmente rivisti se vogliamo puntare ad avere un sistema realmente efficace e non distorsivo. 

Non voglio nascondermi dietro un dito: il sistema universitario italiano ha molti problemi, difetti, colpe e limiti che devono essere affrontati e risolti, con l’impegno di tutti, a cominciare da quello dei docenti universitari. La domanda è però la seguente: “stiamo facendo quel che serve per affrontare il problema?”

La mia risposta è, purtroppo, no.

Il “lato oscuro”

Se prendiamo i due fronti del confronto, quelli che attaccano l’università e quelli che la difendono, noto errori e semplificazioni che si possono sintetizzare ricordando le immagini e i concetti di Guerre Stellari. Il “lato oscuro della forza” consiste nel scegliere la via facile che dà spazio a emozioni, rabbia, emotività, banalizzazione dei problemi. Fuor di metafora, non è forse quello che troppe volte colpisce il nostro Paese?

  1. ”Affamare la bestia”. La frase è spesso attribuita a Oscar Giannino che, parlando del sistema pubblico italiano nel suo complesso, ha in diverse occasioni sostenuto che l’unico modo per guarire il malato consiste nell’affamarlo, eliminando tutte quelle risorse che lo fanno crescere e prosperare nella sua forma attuale. Un cancro in poche parole. Il problema è che questo approccio, per certi versi comprensibile, nel caso dell’università sta portando al suo progressivo indebolimento, alla fuga dei più bravi, alla morte del paziente e non certo al suo recupero. In questo contesto si collocano anche misure che da un lato vogliono fare “cassa” e dall’altro hanno come obiettivo quello di “colpire i lazzaroni”. In realtà sono misure che finiscono per essere una “punizione” indiscriminata e generalizzata che sta deprimendo il sistema nel suo complesso oltre i limiti del sostenibile.
  2. La rivendicazione senza autocritica. All’altro estremo, troppo spesso siamo spettatori di rivendicazioni corporative e di chiusure che hanno come unico scopo quello di difendere privilegi e status quo. È un atteggiamento ugualmente sbagliato e, anzi, ancora più irresponsabile, in quanto giustifica e rafforza le convinzioni di coloro che vedono nell’affamare la bestia l’unica via di uscita realmente praticabile.

Come venirne fuori?

Le “vie della forza”

È ovvio che “il lato oscuro” è il percorso più semplice: che ci vuole a banalizzare e radicalizzare il problema, in un senso o nell’altro?

Ritengo che l’unico modo per uscirne sia promuovere e sostenere un salto di qualità nella governance complessiva del sistema, così da togliere alibi, motivare e sostenere l’impegno delle persone, offrire un segno concreto del cambiamento.

  1. La politica deve offrire gesti e segni concreti che testimonino della volontà di investire realmente nello sviluppo del sistema universitario (a cominciare dallo sblocco degli scatti stipendiali, quanto meno per i più giovani), nello sviluppo di sistemi di valutazione credibili e convincenti, nel rilancio di politiche di reclutamento comparabili con quelle dei paesi con i quali siamo chiamati a confrontarci. Non servono pannicelli caldi o, peggio, artifizi retorici: serve un impegno serio e immediato per lo sviluppo della cultura, delle scienze e del capitale umano del nostro Paese. Come sottolineava dati alla mano il collega Paolo Rossi dell’Università di Pisa, stiamo perdendo l’intera generazione dei docenti nati dopo la guerra (coloro che per esempio hanno creato le facoltà di informatica), senza essere in grado di sostituirli in modo adeguato. In generale, vale quanto ricorda l’articolo che ho linkato qui su: «Istruzione e università, insomma, hanno rappresentato finora il più evidente ambito di riduzione di spese e investimenti pubblici, e forse l’unico ad aver dato risultati strutturali con una effettiva riduzione dei soldi richiesti “a regime”.»
  2. Gli universitari devono fare un mea culpa per gli errori che negli anni sono stati commessi. Non si tratta di essere moralisti. Non ci sono leggi o vincoli che tengano: il cambiamento non lo si impone, lo si sceglie, specialmente nel nostro settore. Sta in primo luogo a noi accademici cambiare passo, lasciarci alle spalle le pratiche del passato, essere intellettualmente onesti e intransigenti nel perseguire l’interesse pubblico e il bene del Paese.

In questo contesto, il tema della valutazione del sistema universitario (VQR) è particolarmente critico perché è uno snodo decisivo per promuovere un reale cambiamento. Purtroppo, per come è stato concepito, oggi rappresenta più una procedura burocratica per cercare il “fannullone” che l’occasione per promuovere lo sviluppo del sistema universitario. La ricerca del “fannullone” è doverosa, ma non basta. Riporto qui le parole di un saggio collega che mi ha scritto in questi giorni commentando una versione preliminare di questo articolo:

Ai miei colleghi che spesso non si pongono problemi a bocciare uno studente anche 10 volte di seguito, racconto questa metafora calcistica: il docente deve essere arbitro rigoroso durante l’esame ma, non appena esso finisce con esito negativo, deve cambiare cappello mettendo quello di allenatore per aiutare lo studente a far meglio al prossimo esame, allorquando il docente si rimetterà il cappello di arbitro.

La VQR non serve per bocciare o promuovere una università o addirittura il sistema italiano delle università. Ma deve essere uno strumento per elaborare un piano di sviluppo anche per i casi per cui la valutazione sia stata negativa: nessun paese può permettersi di nominare un curatore fallimentare per il proprio sistema universitario. Il piano di sviluppo deve però includere un programma di attento monitoraggio in itinere: a chi non è stato valutato bene deve essere data la possibilità di rimuovere le deficienze. Volendo mantenere la metafora del cancro, non bisogna tagliare tutto l’organo ma recidere solo le cellule malate!

In generale, da parte di tutti è necessario ricercare autorevolezza, credibilità, generosità, anche un po’ di sana ingenuità. Serve saper rifuggire da alibi e da pretesti per sostenere questa o quella posizione di comodo. Serve evitare semplificazioni o esasperazioni che, seppur a volte comprensibili, non ci portano da nessuna parte. In altre parole, serve che tutti dimostriamo maggiore responsabilità, maggiore amore verso il nostro paese e le nostre istituzioni, e tanto senso del dovere e delle responsabilità che abbiamo come politici, civil servant e educatori.

Ne saremo capaci?

PS: Desidero ringraziare diversi colleghi e amici che hanno fornito preziosi commenti e contributi alla prima versione di questo articolo.

 

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