Le distorsioni italiche dell’Open Innovation

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Open Innovation è una delle espressioni più diffuse e (ab)usate quando si parla di innovazione. Purtroppo, con una tendenza tipica del nostro paese, abbiamo preso un’espressione che rimanda a tante idee utili e sagge, e l’abbiamo trasformata in una serie di luoghi comuni o, peggio, ne abbiamo travisato e distorto senso e significato. In alcuni casi, ciò accade per superficialità e ignoranza; in altri, ahimè, per furbizia o interessi di parte.

Ma andiamo con ordine, ricordando innanzi tutto cosa si intenda realmente per «Open Innovation».

La definizione di Wikipedia

Wikipedia ci ricorda che questo termine deriva da una ricerca fatta all’università della California che ha portato a queste conclusioni:

Open innovation is a term promoted by Henry Chesbrough, adjunct professor and faculty director of the Center for Open Innovation at the Haas School of Business at the University of California, in a book of the same name, though the idea and discussion about some consequences (especially the interfirm cooperation in R&D) date as far back as the 1960s. The term refers to the use of both inflows and outflows of knowledge to improve internal innovation and expand the markets for external exploitation of innovation.

The concept is also related to user innovation, cumulative innovation, know-how trading, mass innovation and distributed innovation.

“Open innovation is a paradigm that assumes that firms can and should use external ideas as well as internal ideas, and internal and external paths to market, as the firms look to advance their technology”. Alternatively, it is «innovating with partners by sharing risk and sharing reward.» The boundaries between a firm and its environment have become more permeable; innovations can easily transfer inward and outward.

The central idea behind open innovation is that, in a world of widely distributed knowledge, companies cannot afford to rely entirely on their own research, but should instead buy or license processes or inventions (i.e. patents) from other companies.

Questa idea è importantissima: non si può più fare innovazione da soli. Troppe aziende pensano di «sapere tutto» e di non necessitare di contributi esterni. Oppure – dato che emerge da molte ricerche sul tema – si pensa che innovare sia un processo riconducibile al «comprare» qualche nuova tecnologia dal proprio fornitore. Non per niente molte aziende italiane dicono che la prima fonte di innovazione sono proprio i loro venditori di prodotti tecnologici.

Il concetto di Open Innovation scardina questa credenza e invita ad aprirsi all’esterno, a collaborare, a valorizzare competenze e conoscenze sviluppate al di fuori dell’azienda. È un principio sano, intelligente, lungimirante che va contro la chiusura è – mi si lasci dire – la presunzione di tanti manager e imprenditori che pensano di sapere già tutto e che valutano di poco conto tutto ciò che «has not been invented here”.

Open Innovation quindi vuol aprirsi e collaborare con il mondo esterno, secondo diversi modelli che vanno dall’interazione con altri centri di ricerca e aziende con knowhow specifico, a concorsi e hackathon, a scouting e finanziamento di startup innovative. Tante sono le possibilità che hanno alla base tutte lo stesso principio: apertura e collaborazione.

«Sharing risk, sharing rewards»

Un passaggio essenziale nel brano di Wikipedia citato in precedenza riguarda il finanziamento dell’Open Innovation. In particolare, si dice che in un processo di Open Innovation ci possono essere rischi e ricavi condivisi. Ed è proprio qui che nel nostro paese si verifica la prima grande distorsione.

Diciamolo chiaramente: molte iniziative di Open Innovation sono vissute come un modo «a costo zero» (o comunque basso) per ottenere idee.

Lo rivelano certi comportamenti nel condurre le iniziative di Open Innovation: regole di contest in cui se anche l’idea non viene selezionata rimane dell’azienda alla quale è stata sottoposta; proposte di contratti di collaborazione nei quali si chiede a chi ha l’idea di coinvestire, quando è chiaro che l’unico che ne può beneficiare è l’azienda destinataria; gare e hackathon dove gli unici che investono sono i giovani partecipanti.

Questa non è Open Innovation. È la deriva italica del «non investo io e lo faccio fare a qualcun altro; poi se funziona allora uso i risultati».

In altre, parole, invece di considerare l’Open Innovation come uno strumento potente per avere «più idee» lo si usa come artifizio per «spendere poco (o nulla)», scaricando la gran parte dei rischi su colui che ha avuto l’idea o detiene l’innovazione. E spesso si tratta del giovane, della startup, o del centro ricerche che si trova a dover discutere di questi temi con la grande azienda che magari spende (inutilmente) ingenti quantità di denaro in consulenze manageriali, marketing o altro, ma che non «ha budget» per pagare chi innova, o banalmente non vuole assumere alcun rischio. Non più tardi di qualche giorno fa, un collega mi diceva che diverse grandi aziende chiedono di organizzare gratuitamente degli hackathon come «azione di marketing».

Così non funziona e soprattutto non è accettabile … e non credo ci sia bisogno di spiegarne il perché.

Open Innovation ≠ supermarket

Una seconda distorsione italica è quella secondo la quale fare Open Innovation sarebbe facile: basterebbe «aprirsi» e cogliere i frutti che profumati e maturi pendono davanti ai nostri occhi in attesa di essere consumati. Ricordo sempre con rabbia un convegno nel quale un nutrito gruppo di imprenditori non faceva che ripetere il mantra del «Che ci vuole? Basta seguire il principio dell’Open Innovation e tutto quello di cui abbiamo bisogno è a disposizione. Altro che investimenti in progetti di innovazione!».

Per molti, fare Open Innovation è come passeggiare in un supermarket nel quale fare comodamente cherry-picking delle idee che si ritengono interessanti. Che ci vuole?

In realtà, «fare innovazione» è un processo complesso, non semplicemente riconducibile al «comprare o scegliere qualcosa». Open Innovation non rende tutto più semplice e, anzi, per certi versi complica il processo perché è necessario prevedere skills, metodi di lavoro e investimenti che non sono per nulla banali.

A questo proposito, è molto interessante analizzare il lavoro di scouting di startup innovative fatto da SNAM (progetto voluto e diretto da Gloria Gazzano che ne ha presentato i risultati al convegno Finaki 2015). SNAM ha identificato e seguito un centinaio di startup, valutandone offerta e potenzialità. Attraverso un processo articolato è giunta a selezionarne alcune (meno di dieci) con le quali sta svolgendo approfondimenti. È un processo durato mesi e che ha coinvolto alcune delle persone più esperte della struttura. È stato creato un metodo di lavoro. Sono state definite modalità di collaborazione con le startup. Sono stati investiti tempo e risorse.

Altro che supermarket!

Miti da sfatare, consapevolezza da costruire

Anche nel caso dell’Open innovation, come in tanti altri ahimè, nel nostro paese è necessario mettere in campo due azioni indispensabili:

  • Debunking di miti, distorsioni, fanfaluche e banalizzazioni che creano solo illusioni e cocenti delusioni.
  • Ricostruzione di processi, modelli culturali e competenze vere per sostenere l’innovazione.

Ma, soprattutto, è vitale creare una piena e matura consapevolezza che non esistono furbizie o scorciatoie che ci permettano di essere innovativi: bisogna saper rischiare e investire. Tutto il resto è solo chiacchiera.

(Foto Opensource.com, CC BY-SA)

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