Open Manufacturing: stato dell’arte, scenari, contaminazioni

Con questo primo contributo inauguriamo una nuova rubrica mensile che racconterà l’Open Manufacturing, un fenomeno tutto sommato recente (inizia a far notizia non prima di una decina di anni fa), che sperimenta l’applicazione del modello collaborativo Open Source nel campo della manifattura e che, ad oggi, ha investito gli ambiti più disparati: architettura, ingegneria, agricoltura, moda, mobilità, robotica, ambiente, medicina, ricerca scientifica, didattica, ecc.

Per avere una vaga idea possiamo sfogliare la lista di progetti Open Hardware censiti da Wikipedia, ma procediamo con ordine.

Che cosa vuol dire Open Manufacturing?

Significa aprire il processo produttivo (progettazione, prototipazione, sviluppo del prodotto, fabbricazione) a una comunità (solitamente digitale) per innescare una partecipazione a diversi livelli: a seconda delle fasi del processo che vengono “aperte”, parleremo di dinamiche di co-progettazione (co-design), co-creazione (co-create), co-fabbricazione.

Da dove nasce questo fenomeno?

Le pratiche di condivisione delle informazioni di progettazione e fabbricazione non sono storia così recente, visto che se ne ha traccia già nel 18° e nel 19° secolo, prima che esplodesse la “corsa selvaggia” al brevetto.
Anche in Italia possiamo annoverare uno splendido caso di successo, in epoca “pre-digitale”, ad opera di Enzo Mari, considerato uno dei maggiori teorici del design italiano e mondiale, il quale nel 1974, prima ancora che venisse concepito il concetto di Open Source, realizzò un libro dal titolo Autoprogettazione in cui condivise una raccolta di progetti e di istruzioni per un set completo di mobili (tavoli, sedie, armadi, ecc.) semplici e funzionali con lo scopo di trasmettere il proprio concetto di design, frutto della ricerca di una vita, attraverso l’invito alla fabbricazione “fai da te” (l’auto-fabbricazione).
Ovviamente l’Open Manufacturing di cui mi occuperò in questa rubrica è quello della storia più recente, frutto della sempre maggiore diffusione di internet a livello globale, della democratizzazione delle tecnologie digitali, della cultura Open Source e dell’hacking (quello virtuoso, sinonimo di curiosità ed inventiva).
Tra i papà di questo fenomeno possiamo sicuramente citare il professore del MIT, nonché direttore del Center for Bits and Atoms, Neil A. Gershenfeld, che nel 1998 inaugurò un corso dal titolo Come fabbricare (quasi) tutto, un’esperienza illuminante che lo portò ad ideare il concetto di personal fabrication e ad avviare nel 2001 il primo Fab Lab, un laboratorio di fabbricazione digitale che è diventato un modello esportato e replicato in tutto il mondo.

Da quel momento è stato un crescendo esponenziale: nel 2005 viene presentata la prima scheda Arduino, nasce il progetto RepRap per la creazione di stampanti 3D low-cost, viene inaugurato il portale Instructables per la pubblicazione collaborativa di progetti fai da te sui temi più disparati (dall’elettronica alle ricette di cucina, al taglio e cucito, alle biciclette) e lo stesso Gershenfeld pubblica il libro Fab: the coming revolution on your desktop; from personal computers to personal fabrication. Nel 2006 viene organizzata la prima Maker Faire a San Mateo, California, un evento per celebrare la creatività dei maker, questa nuova generazione di appassionati del fai da te digitale che si raccontano in rete condividendo progetti ed esperienze.

Questa cultura inizia presto ad uscire dalla sfera hobbistica e a contaminare in maniera virtuosa gli ambiti manifatturieri tradizionali: nel 2007 viene fondata in America la Local Motors, una piccola azienda automobilistica focalizzata sulla progettazione comunitaria e sulla fabbricazione distribuita. Nel 2011 il progetto Open Source Ecology, ideato da Marcin Jakubowski, presenta il Global Village Construction Set, un’innovativa piattaforma collaborativa per progettare un set di 50 macchinari di base per creare da zero una moderna civiltà. Sempre nel 2011 nasce a Londra il progetto Open Source Wikihouse, una piattaforma per la creazione democratica di case sostenibili e modulari. Nel 2013, dagli stessi ideatori di Wikihouse, nasce il progetto OpenDesk, focalizzato sulla progettazione di mobili e sulla fabbricazione a km zero. E così via, senza sosta, a contagiare in maniera virtuosa ogni ambito possibile e immaginabile.

Perché condividere il progetto e il processo produttivo?

  • Per sviluppare prodotti condivisi, evitando costose indagini di mercato (la comunità spesso comprende potenziali acquirenti): si produce solo in base alla domanda (zero magazzino, se voglio quel prodotto, partecipo).
  • Per sviluppare prodotti migliori, mettendo a frutto le competenze della comunità.
  • Per sviluppare processi produttivi migliori, ad esempio considerando aspetti spesso trascurati come la sostenibilità ambientale, il lavoro equo, la personalizzazione spinta, la decentralizzazione della produzione, ecc.
  • Per sviluppare prodotti e processi nuovi, fuori dalla portata o dagli interessi della grande industria (ricerca dal basso). Il prodotto industriale, standardizzato e fabbricato in massa, non soddisfa più tutto il mercato, un processo produttivo aperto può aiutare a percorrere le nicchie scoperte o del tutto inesplorate.

Scenari

Immaginate di poter decidere se quel telefono che vi piace tanto si dovrà rompere dopo due anni o dovrà essere progettato per durare e facile da riparare o aggiornare. Immaginate di poter facilmente aggiornare il propulsore della vostra auto per passare in ogni momento alla propulsione ibrida, elettrica, a idrogeno, a seconda della convenienza in quel dato momento storico (considerate ad esempio che, nell’agricoltura, il fatto che i mezzi agricoli vadano a idrocarburi, lega il prezzo degli alimenti a quello del petrolio. Liberare anche solo questo aspetto, come sta cercando di fare Open Source Ecology, avrebbe una portata enorme).

Gli scenari dell’Open Manufacturing sono potenzialmente dirompenti, perché consentono di ragionare in termini anche diametralmente opposti a quelli (spesso spregiudicati) dei grandi interessi lobbistici.

Progettare globalmente, costruire localmente

Le startup o le aziende che scelgono questo modello solitamente si dotano di una struttura particolarmente agile, in grado di definire i pilastri del progetto e gestire infrastruttura e comunità, ma raramente centralizzano la produzione, in quanto comporta investimenti non trascurabili (e il rischio di impresa già solamente fino a qui non è poco), piuttosto si impegnano a creare e coordinare una rete di piccoli produttori locali (ad esempio le Microfactory della Local Motors o la rete di Maker di Opendesk). Chi acquista il prodotto ha la comodità di farlo online, beneficiando di una qualità garantita dalla progettazione “globale”, e l’affidabilità di rapportarsi “faccia a faccia” con un produttore locale, al quale può rivolgersi in qualsiasi momento in caso di problemi.

Complessità

Il concetto è affascinante, ma la sua realizzazione non è priva di difficoltà perché:

  • È un modello meritocratico: il progetto DEVE essere valido (e raccontato con efficacia), altrimenti difficilmente attirerà contributi.
  • Non è banale gestire una comunità: servono nuove figure professionali (Community Manager, Social Media Manager) e una piattaforma collaborativa efficiente (infrastruttura).
  • Bisogna esplorare nuovi modelli di business, con tutti i rischi annessi.
  • Bisogna vincere le resistenze culturali di quegli ambiti in cui la creatività, il know-how, il saper fare del singolo, o del singolo brand, sono storicamente rilevanti (artigianato, fashion, ecc.).

Contaminazione

Anche chi non prova una particolare passione per il modello Open Source può ricavare preziosi spunti studiando i migliori casi di Open Manufacturing proprio per questa sua caratteristica di dover affrontare e gestire la complessità, andando quindi a collaudare dinamiche e meccanismi che possono rivelarsi idonei e vincenti anche in altri ambiti, come la gestione sapiente dei social media, la valorizzazione dei feedback e dei contributi comunitari, l’impostazione vincente di una campagna di crowdfunding, ecc. Senza contare l’indotto, ovvero la spinta per la creazione o il perfezionamento di piattaforme e strumenti che alla fine risulteranno accessibili e aperti a tutti in maniera assolutamente trasversale.

Un percorso stimolante

È difficile prevedere se questo fenomeno diventerà globale, quel che è certo è che sta crescendo con costanza e sperimentando tanti ambiti diversi. Io cercherò di raccontarvi tanto i casi di successo quanto quelli di insuccesso (altrettanto preziosi quanto a insegnamento), cercando di percorrerli tutti. A voi non resta che mettervi comodi e, se volete, commentarli insieme a me.

(Foto di TheLeadSACC0)

 

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