Vivere tra Scilla e Cariddi

Nelle discussioni di lavoro, nello scambio di opinioni con altre persone, nei dibattiti pubblici, spesso mi sento come il marinaio che naviga tra Scilla e Cariddi, alla ricerca di una rotta che gli permetta di restare lontano da due estremi, opposti e ugualmente pericolosi.

1. Giuste motivazioni, scelte e azioni sbagliate

Il primo caso nel quale mi trovo a disagio si verifica quando trovo persone che fanno seguire a motivazioni e obiettivi condivisibili, almeno in linea generale, scelte e azioni concrete che trovo sbagliate o incongruenti con gli obiettivi dichiarati. Mi parrebbe logico criticare tali scelte, condividendo o sottolineando l’importanza degli obiettivi. Semplice no?

No.

Oggigiorno ci si schiera: quelli a favore e quelli contro, non ci sono vie di mezzo. “Se critichi quel che fanno allora non ritieni quegli obiettivi importanti e quindi sei contro.” Come se la giustezza degli obiettivi potesse di per se stessa rendere appropriata qualunque scelta operativa che venga proposta.

La via di mezzo, il buon senso, la razionalità di un ragionamento non trovano spazio. O sei con Scilla (idee giuste e azioni sbagliate) o con Cariddi (idee diverse o opposte). Navigare “in mezzo”, fatto che sarebbe saggio, è vietato.

2. L’immobilismo conservatore, la narrazione movimentista

Un’altra delle distorsioni che vivo è la contrapposizione tra chi “vuole cambiare” e quelli che invece non lo vogliono.

  • Indubbiamente il nostro è un paese largamente conservatore, che rifugge e resiste molti cambiamenti, dalle questioni economico e sociali, a quelle relative ai costumi e alle scelte di vita. Ci piace continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto, per pigrizia culturale, per ignoranza del nuovo o per convenienza. Nei fatti, c’è sempre un buon motivo per non fare, per restare nella “comfort zone” delle nostre consolidate consuetudini.
  • D’altro canto, viviamo una retorica sempre più insopportabile e sterile dove si declamano le lodi del futuro possibile senza la concretezza né dei risultati, né dei processi, delle responsabilità e dei metodi secondo i quali dovremmo costruire queste novità.

Non se ne esce, non si riesce a far capire, da un lato, che dobbiamo cambiare e, al tempo stesso, che il cambiamento richiede competenze, processi sofisticati, chiarezza di visione, governance, risorse, tempo, responsabilità. Macché, sembra che basti evocare il nuovo, magari sotto le spoglie di qualcosa di sfizioso o curioso (pensiamo a tutta la retorica delle startup) perché quel nuovo magicamente si materializzi. Peggio, si prende un singolo tema e lo si fa divenire una sorta di santo Graal in grado di guarire qualunque male, dalla fame nel mondo, alla scomparsa della foca monaca.

Come spiegare che bisogna cambiare e al tempo stesso che il cambiamento è complesso, articolato, a volte doloroso, tutt’altro che istantaneo, e che è controproducente e anzi dannosissimo continuare a banalizzare le questioni?

3. L’idealismo sterile, l’efficientismo fine a se stesso

Come dice Musil ne “L’uomo senza qualità”,

Abbiamo conquistato la realtà e perduto il sogno.

È vero. Oggi vedo spesso un efficientismo, talvolta di facciata e un po’ modaiolo, che ispirandosi alla managerialità finisce per ignorare o sottovalutare i problemi e le dinamiche umane e sociali. Non siamo solo struttura organizzativa, processi, indicatori. Siamo persone, comunità economiche e sociali complesse, le cui dinamiche non possono essere ricondotte solo a puro efficientismo vorrei dire meccanicistico.

Al tempo stesso, però, dall’altro lato vedo spesso una sorta di idealismo a metà tra l’ingenuità e lo snobismo di maniera, secondo il quale la complessità delle nostre realtà quotidiane dovrebbe essere gestita attraverso “l’assemblearismo” o la buona volontà. Oppure tutto viene ridotto “all’essere onesti e trasparenti”. Ovviamente onestà, capacità di ascolto, apertura, correttezza professionale sono tutte qualità assolutamente necessarie. Ma pensare che siano anche “sufficienti” per operare all’interno di realtà complesse costituisce un errore ugualmente grave, ancorché opposto, all’efficientismo meccanicistico di cui sopra.

4. Il principio di Peter, l’incompetenza ingenua

Un’altra faccia di questo stesso problema (come si gestiscono e organizzano strutture complesse) è discussa nel cosiddetto Principio di Peter. Esso dice una cosa molto semplice:

Il principio di Peter va inteso nel senso che, in una gerarchia, i membri che dimostrano doti e capacità nella posizione in cui sono collocati vengono promossi ad altre posizioni. Questa dinamica, di volta in volta, li porta a raggiungere nuove posizioni, in un processo che si arresta solo quando accedono a una posizione poco congeniale, per la quale non dimostrano di possedere le necessarie capacità: tale posizione è ciò che gli autori intendono per «livello di incompetenza», raggiunto il quale la carriera del soggetto si ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare ogni ulteriore spinta per una nuova promozione.

Spesso valutiamo le persone non sulla base delle loro caratteristiche e in relazione al lavoro che verrano chiamati a svolgere, ma sulla base del loro “track record”, cioè dei risultati che hanno raggiunto nel loro lavoro attuale. In altri termini, si assume che se uno è stato bravo a fare il lavoro nella posizione X, allora sicuramente lo sarà anche nella posizione X+1. Così si promuovono spesso le persone fino a quando ci si accorge, a posteriori, che sono state collocate in una posizione per loro inadatta.

Allo stesso tempo, spesso si assume che “una brava persona”, anche inesperta, possa fare qualunque cosa, ignorando che l’esperienza plasma e forma l’individuo e lo rende più maturo e capace.

5. L’egocentrismo arrivista, la negazione delle legittime aspirazioni

Al Giubileo dell’Industria, Papa Francesco ha affermato: “Se si perde il senso del servizio, il potere diventa arroganza”. È una considerazione molto bella che rimanda ad un’altra contrapposizione sterile che vivo e vedo.

  • Da un lato spesso vi è la rincorsa ansiosa al guadagno, al successo, all’affermazione di sé. Per molti è questo che definisce il senso dell’esistenza: ottenere sempre di più, avere più potere, sviluppare il proprio prestigio, “dimostrare quel che si vale”. Qualunque impresa è vissuta come una ricerca ansiosa ed ansiogena dell’affermazione personale.
  • Dall’altro c’è chi appiattisce i valori e nega il merito, condanna il legittimo guadagno, vede quasi come un privilegio il poter perseguire le proprie inclinazioni e legittime ambizioni personali. È così si arriva anche alla ipocrisia della finzione, “dell’impegno disinteressato” che alla fine è solo una tecnica comunicativa per far passare un preciso messaggio promozionale.

È così difficile accettare che tutti abbiamo le nostre legittime aspirazioni ed ambizioni, e che invece di demonizzarle andrebbero misurate e valutate sulla base della loro trasparenza, coerenza, equilibrio rispetto al bene comune?

6. L’attacco alla persona, l’ipocrisia delle buone maniere

Molto spesso, quando si vuole contrastare un’idea e un progetto, invece di entrare nel merito del tema, si attacca la persona e/o la struttura per cui lavora. È una forma più o meno meschina di intimidazione che si manifesta quando l’incapacità di dibattere nel merito dei problemi lascia spazio al rancore personale o ad uno sterile tatticismo.

Non è quello che vediamo quasi ogni giorno nei media, in TV e anche nei nostri luoghi di lavoro?

Sembra che sia impossibile rispettare le persone, anche quando si dissente profondamente da quello che dicono.

Al tempo stesso, confondiamo il rispetto reciproco con un’ipocrita correttezza formale. Preferiamo una spesso falsa cortesia di facciata ad un franco e — quello sì! — onesto e diretto scambio di idee. Scambiamo la schiettezza e la passione per le proprie idee per mancanza di rispetto o aggressività.

Non è forse molto più “aggressivo” e pernicioso attaccare “gli avversari” sul piano personale e umano, trattandoli come “nemici” o squalificandoli professionalmente?

Domanda finale

Alla fine di tante parole la domanda sorge spontanea: come uscirne?

Francamente non lo so.

Forse il parlarne è un primo passo, un modo per condividere preoccupazioni, errori, difficoltà, ansie, tensioni ideali e (ri)trovare un “comune sentire”.

Almeno spero.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here