Open Data Barometer: come siamo messi?

La World Wide Web Foundation ci racconta ogni anno “il tempo che fa” per l’Open Data a livello globale. Anche quest’anno a fine aprile 2016 è uscita la terza edizione dell’”Open Data Barometer”, frutto di un’attività di ricerca estensiva, portata avanti con una metodologia che si propone come uno standard per ricercatori ed esperti. I dati analizzati, che quest’anno interessano 92 nazioni, sono frutto di sondaggi, di ricerche dirette sui dati pubblicati come open e di informazioni di provenienza World Economic Forum, Banca Mondiale, Nazioni Unite e l’associazione Freedom House.

L’Open Data Barometer considera lo stato di maturità delle iniziative, la loro realizzazione in termini di tipo, numero, qualità di dati rilasciati e infine l’impatto su 3 assi: sociale, economico e politico. Da ultimo calcola anche una classifica di tutti i Paesi esaminati e solitamente a fare notizia è la posizione nella classifica del proprio Paese.

Open Data e Open – Washing

La vera notizia dovrebbe essere invece che i dati del survey indicano una non progressione, anzi un rallentamento dell’Open Data rispetto ai risultati delle altre edizioni. In sostanza i dati disponibili online nel 2015 sono diminuiti sensibilmente rispetto all’anno precedente e anche gli Open Data in senso stretto, ovvero dati gratuitamente disponibili, dotati di licenza e liberamente scaricabili in formato standard, non sono sostanzialmente aumentati.

Il calo non sarebbe però da attribuirsi ad un contesto produttivo e sociale non pronto a riutilizzare i dati, dal momento che l’imprenditorialità sui dati aperti è aumentata. Non è la domanda ad essere carente, scarso è il sostegno organizzativo e finanziario da parte delle Amministrazioni che non garantiscono alle iniziative attendibilità, qualità e sostenibilità.

Su questo punto il rapporto è molto esplicito: i governi tendono all’”open-washing”, termine coniato da “green-washing” ovvero affermare di pubblicare Open Data come etichetta di bontà, l’analogo del bollino “ecologico” o “verde” che si affaccia in tutti gli scaffali del supermercato. Ed ecco un altro punto molto esplicito e forte del rapporto: le infrastrutture pubbliche dei dati non potranno sussistere se le iniziative di Open Data continueranno, come pare avvenga spesso, ad essere considerate una moda passeggera dalle stesse Amministrazioni.

Le premesse per l’Open Data sono un quadro normativo chiaro su privacy e diritto di accesso ai dati, quindi occorre attuare una strategia a lungo termine perché la domanda e l’impatto non possono essere sostenuti se la pubblicazione è, citando testualmente, azzardata e avventurosa.

Altrimenti, così nelle conclusioni del rapporto, c’è il rischio che tutto sfumi in una città fantasma di portali abbandonati e App dimenticate, “a ghost town of abandoned portals and forgotten apps.”(!), un incubo per chi si dedica o comunque conosce e ha a cuore gli Open Data.

Di seguito il diagramma dell’impatto che mostra come quest’ultimo è variato sotto vari aspetti tra il 2013 ed il 2014 (in verde) e tra il 2014 ed il 2015(in blu): l’efficienza delle Amministrazioni legata ai dati aperti è addirittura diminuita così come l’accountability, ovvero la fiducia legata alla trasparenza dei dati, o l’inclusione sociale. Note positive gli effetti benefici sull’ambiente e sull’economia con un’imprenditorialità che continua ad aumentare.

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Open Data Mainstream

D’altra parte l’Open Data è mainstream: il 55% delle nazioni analizzate ha iniziative Open Data e cataloghi nazionali, ci sono Paesi emergenti che hanno implementato politiche Open data rapidamente e la domanda sembra essere molto forte.

Il peso dell’Open Data non è solo nella prevalenza numerica delle percentuali: nel 2015 è stato firmato il Sustainable Development Goals (SDGs) , una serie di impegni per combattere la povertà, la disuguaglianza e gestire il cambiamento climatico fino al 2030. L’Open Data viene riconosciuto come fattore abilitante per il raggiungimento degli obiettivi dell’SDG. D’altra parte più della metà dei dati è pubblicato dalla prime 10 nazioni, che sono anche le più ricche, mentre l’Africa, nonostante abbia avviato una roadmap africana per migliorare l’apertura dei dati, copre le ultime posizioni.

Molto interessante è, in questa terza edizione del rapporto, la sezione relativa ad ”Implementation” che esplicita 15 tipi di dati concreti, o dataset, e indica in modo molto intuitivo e leggibile quali obiettivi SDG possono essere favoriti dall’apertura di certe tipologie di dati. E’ una sezione utilissima per chi, ad esempio, deve porsi il problema di individuare quali dati pubblicare. Vale la pena consultare l’handbook metodologico con i vari punti del sondaggio, ricchissimo di esempi.

Quasi nessuno, solo l’Australia attraverso un’organizzazione con ruolo simile alla Consob, pubblica un dataset apparentemente banale come l’elenco aggiornato delle imprese con indirizzo. Pochissimi pubblicano dati di spesa con dettaglio della singola voce (dato transazionale). Se si valuta l’impatto di queste pubblicazioni si vedrà che questo è molto forte come deterrente alla corruzione e, non a caso, la loro apertura sembra incontrare maggiori resistenze.

I dati di migliore qualità sono i dati statistici o comunque i dati con maggiore richiesta da parte del mercato e particolarmente utili sono da considerare le pubblicazioni di livello locale, quindi regioni e centri urbani, perché hanno un impatto molto maggiore sulle comunità di appartenenza.

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Iniziative e raccomandazioni 

Il rapporto, in modo qualitativo, indica alcune iniziative degne di nota, tutte da vedere e approfondire. Tra queste è da segnalare per il forte impatto l’Open Data Police Initiative, che ad un anno dall’avvio, è riuscita a coinvolgere 53 città degli Stati Uniti e ad aprire dati estremamente sensibili come discriminazioni razziali e coinvolgimento della polizia nelle sparatorie; ciò ha portato portando ad esempio ad una fortissima diminuzione delle denunce di uso eccessivo della forza (meno 65% a Dallas).

Le nazioni che credono e sostengono l’Open Data colgono quindi risultati, come fa anche la Francia che con l’iniziativa DataConnexions individua, quindi sostiene le startup che fanno uso dei dati.

Ma nel complesso l’Open Data è ad un punto di svolta molto critico e il report indica alcune raccomandazioni che incoraggiano tutte un approccio organizzato, sistematico e duraturo. Tra le raccomandazioni di cui si dovrebbe far tesoro vi è quella che un catalogo on-line di dati non basta: l’Open Data è una scelta politica che richiede risorse, persone, investimenti, infrastrutture e buone pratiche per poter cogliere risultati a lungo termine.

E infine la classifica

Ma vediamo anche la classifica, considerando il ranking nelle tre edizioni: si segnala la Francia che, con la sua forte politica di sostegno all’innovazione basata sui dati, scala la classifica delle prime 10, inseguendo i capofila USA e UK, di fatto raggiungendo gli Stati Uniti.

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E l’Italia? Appare, con il 21° posto, sostanzialmente stabile nelle posizioni intermedie fra i paesi UE.

 

 

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