L’esperimento social de Il Secolo XIX: quando a fallire siamo noi

Hands of businessman using digital tablet with newspaper and cup of coffee near by

Negli ultimi giorni ha fatto parecchio discutere “l’esperimento social” de Il Secolo XIX, che ha pubblicato sulla propria pagina Facebook un “lancio” della notizia di un uomo che ha tentato di darsi fuoco, nel centro della cittadina ligure di Sarzana, in preda alla disperazione per aver perso il lavoro e la casa in cui viveva insieme alla moglie e ai due figli piccoli.

La notizia è apparsa sulla pagina Facebook del quotidiano genovese così:

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[Facebook – Il Secolo XIX]

Quello che il titolo non dice è che l’uomo in questione – che si è salvato, come si legge nell’articolo – era un cittadino marocchino di 38 anni, residente a Sarzana da 13, che si era rivolto alle autorità del Comune per cercare di risolvere la propria situazione. Il Secolo XIX non ha (volutamente?) scritto la nazionalità dell’uomo nel titolo dell’articolo e l’ha lanciato su Facebook così, nudo e crudo.

E, ovviamente, è successo quel che doveva succedere, e cioè che in capo a pochi minuti sono cominciati a comparire commenti di questo tenore:

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Senza troppa sorpresa, c’è chi ha commentato senza leggere realmente la notizia, basandosi sulle scarsissime informazioni contenute nel titolo e giungendo alla conclusione più “semplice” e, soprattutto, in linea con le proprie idee e opinioni sull’emergenza migranti che il nostro Paese sta affrontando negli ultimi anni.

E in molti continuano a commentare senza leggere anche dopo che qualcuno fa notare nei commenti – con una buona dose di scherno e sarcasmo – i dettagli contenuti nell’articolo:

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Il caso suscita un certo clamore tanto che, all’indomani di quanto accaduto sulla pagina Facebook de Il Secolo XIX, Emanuele Capone analizza la questione sulle pagine del quotidiano genovese:

Quel che è accaduto dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza.

Ora. Che la gente non legge o che comunque dedichi pochissima attenzione alle notizie che trova sui social network non è una novità: già in passato abbiamo avuto casi analoghi, come il clamoroso autogol di Beppe Grillo e della finta pagina del Corriere della Sera (in piena campagna elettorale) o il più recente – e geniale – “trolling” di un collettivo bolognese che ha twittato dall’account ufficiale del Comune di Bologna a proposito del Centro di Arte Contemporanea sulla Cultura Alimentare, ovvero il mitico C.A.C.C.A.

Il caso dell’“esperimento social” de Il Secolo XIX non fa che confermare questa “cattiva pratica” anche se, per forza di cose, risulta essere molto più allarmante: ciò che noi abbiamo visto sono delle persone che non solo si limitano a considerare soltanto una parte delle informazioni che vengono loro offerte, ma che addirittura si prendono la briga di compiere azioni a riguardo – commentare, condividere, o anche solo mettere una faccina piangente – senza sapere di cosa si sta parlando in realtà.

Alcuni anni fa Giovanni Boccia Artieri scriveva a proposito della difficoltà, da parte dell’utente, di selezionare i contenuti rilevanti nel mare magnum del web e, soprattutto, sul pericolo che l’utente – che attraverso i social si crea la propria “rete” di notizie e informazioni – finisca per soffermarsi soltanto su temi e notizie che incontrano i propri interessi e la propria visione del mondo:

[…] Un secondo punto ha quindi a che fare con la capacità di selezione ed il rischio di omofilia, per cui tendiamo ad incontrare contenuti incapaci di produrre differenze rispetto al nostro modo di pensare […]

A questo punto però, viene da chiedersi se il cambiamento non sia già avvenuto in maniera ancora più profonda: anche quando incontriamo contenuti che ci raccontano una storia diversa da quello che ci si aspetterebbe, ne stravolgiamo il senso semplicemente ignorando volontariamente le informazioni fornite?

Trasportando il discorso al di fuori dell’aspetto prettamente sociale di tutta la faccenda e senza aprire il capitolo dei rischi che questo tipo di comportamento da parte degli utenti comporti a livello locale e globale, l’esperimento de Il Secolo XIX mette sul piatto una bella gatta da pelare per tutti coloro che si occupano di divulgare contenuti sul web e non soltanto in ambito news, ma anche in ottica di comunicazione corporate: chi comunica può farlo in modo ineccepibile, rispettando tutte le “regole” dell’informazione e della piattaforma su cui le diffonde ma è necessaria una precisa risposta da parte del destinatario della comunicazione, chiunque esso sia, perché questa si diffonda “correttamente”.

Il Secolo XIX ha scoperto l’acqua calda: ovvero gli utenti non leggono né cliccano sui link. E questo non solo perché sono pigri, ma anche perché ormai sono loro sufficienti pochi tasselli di informazione per confezionarsi una notizia a proprio uso e consumo che suffraghi le proprie visioni sociali o politiche. Ma è lo stesso principio con cui si diffondono le bufale sul web ed è anche la stessa dimostrazione data mesi fa con la storia del C.A.C.C.A. di Bologna che, nel suo essere esilarante, ci aveva fatto arrivare alla stessa conclusione:

[…] comunicare è una cosa che si fa in due, è un atto che prevede un’azione da parte del ricevente, imprescindibile tanto quanto lo è quella dell’emittente. Ma il ricevente può essere distratto da troppe informazioni o non sapere cosa sia un link esterno, può avere dei pregiudizi nei confronti del nostro brand e quindi agire in malafede o, semplicemente, può non avere voglia di cliccare qui e leggere tutto il resto, perché è convinto che 140 caratteri gli siano sufficienti per “capire tutto”.  La trappola è sia per chi legge e non comprende il messaggio che per chi comunica e non si rende conto che il messaggio non è stato recepito in modo completo e corretto. È un rischio che non si può mai azzerare, ma soltanto ridurre con la consapevolezza, da parte di chi comunica, che il proprio pubblico è un sistema che funziona in modo imperfetto. E come tale va considerato, cercando di comunicare nel modo più semplice e immediato, sapendo che possiamo disporre soltanto di pochissimi “spizzichi” della loro attenzione.

Lesson Learned: Gli utenti a cui ti rivolgi potrebbero non recepire in modo corretto le informazioni che offri fin dall’inizio della tua comunicazione, anche se questa è “tecnicamente corretta”. Siine consapevole e pianifica con cura non solo il tuo modo di comunicare, ma anche quello che vuoi comunicare sui social, sapendo che recepire le informazioni richiede uno sforzo da parte del ricevente che non tutti compiranno.

 

 

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