Open Furniture: quando un oggetto diventa Open Source

La “spersonalizzazione” di ciò che è libero e accessibile a tutti è un preconcetto erroneo piuttosto diffuso tra chi osserva dall’esterno con diffidenza il fenomeno Open Source: se è Open, si pensa, allora è di tutti e di nessuno. Il colorito ex-amministratore delegato di Microsoft Steve Ballmer negli anni passati era arrivato addirittura a paragonare Linux al comunismo (ora invece pare sia vero amore, “Microsoft loves Linux“). Niente di più sbagliato.

Proprio qualche settimana fa, un caso raccontato su Tech Economy è l’emblema di un malcostume culturale diffuso, di utilizzo di materiale fotografico rilasciato con licenza Creative Commons Attribution Share-Alike senza la doverosa menzione dell’autore e della licenza, che ha portato ad un congruo risarcimento e a scuse pubbliche. L’autore di quelle foto le aveva condivise con la precisa intenzione di mostrare il proprio talento e acquisire visibilità, volontà che è stata lesa causando un danno che è stato acclarato e quantificato.

Apertura e condivisione attraverso una strategia

La scelta del modello Open Source è sempre guidata da una strategia: sperimentare un modello economico, ripartire i costi di ricerca e sviluppo, cercare visibilità, dimostrare il proprio talento per possibili consulenze e collaborazioni, comunicare un’idea, un pensiero o una visione. Le licenze Open Source sono documenti che servono a tutelare il diritto d’autore e la volontà dell’autore stesso di garantire le libertà previste di accesso ed utilizzo della propria opera affinché la sua strategia possa realizzarsi. Migliorare la robustezza in ambito legale è il motivo per cui le licenze ricevono revisioni e differiscono di ambito in ambito (codice software, dati geografici, progetti meccanici o architettonici, ecc.). Creative Commons, per fare un esempio, in questo periodo sta ragionando su come perfezionare le licenze dedicate ai modelli per la stampa 3D per garantire la persistenza delle informazioni d’autore.

Con la strategia giusta e una licenza appropriata posso dunque confrontarmi in un ambito esclusivo ed elitario come quello del design?

In un Paese come l’Italia, in cui il marchio è spesso anteposto alla bontà del prodotto, parrà impossibile, ma la risposta è sì. Vediamo alcuni esempi.

Enzo Mari, Open Design before it was cool

Il designer italiano Enzo Mari, conosciuto e apprezzato (e premiato) in tutto il mondo, è stato un precursore dell’Open Design ancor prima che il concetto stesso di Open Source vedesse la luce. Nel 1974 ha pubblicato un libro intitolato “Autoprogettazione” contenente i progetti e i disegni costruttivi, rilasciati con licenza libera e aperta, di un set completo di mobili concepiti per essere facilmente costruiti ed assemblati da chiunque. Secondo quale strategia si mosse Mari? Il suo cruccio era quello di non essere compreso nella sua ricerca di un design ispirato alla perfezione funzionale delle forme della natura, dunque decise di lavorare ad un design che trasmettesse conoscenza attraverso la pratica dell’auto-fabbricazione (DIY), un approccio assolutamente rivoluzionario per l’epoca. Mari ottenne molto più di ciò che si prefiggeva, oggi i suoi progetti sono adottati nei laboratori di fabbricazione di tutto il mondo come oggetti di workshop e i suoi dettami in fatto di design sono diffusi in maniera virale tra le comunità digitali. Si è creato, e si continua ad alimentare, un valore molto più grande di quello intrinseco dei meri mobili.

Slow/d, un esperimento tutto italiano

Nel 2011 nasce Slow/d, una startup modenese che vuole sperimentare un innovativo modello di design rivolto ad una manifattura distribuita, locale e sostenibile. L’idea è di creare una piattaforma online che possa mettere in contatto i designer con una fitta rete di artigiani e fabbricanti distribuiti su tutto il territorio nazionale. I designer propongono i progetti, gli artigiani collaborano alla prototipazione aggiungendo competenze, la piattaforma fornisce l’e-commerce, l’acquirente ottiene il prodotto fabbricato “a km 0”. Pur partito con le migliori intenzioni, questo progetto non è riuscito a spingere molto l’aspetto Open Source, ma è comunque riuscito a creare una comunità numerosa (oltre 1400 utenti) e prolifica, un interessante catalogo online di prodotti e prestigiosi riconoscimenti (Compasso d’Oro: Slow/d vince la menzione d’Onore).

SketchChair, un tool Open Source finanziato grazie a Kickstarter

Sempre nel 2011, la piattaforma di crowdfundind Kickstarter garantisce il successo (31.475$ raccolti a fronte di un goal di 18.000$) al sorprendente tool Open Source SketchChair, che consente di realizzare un proprio design di una sedia completamente personalizzato, eseguire una verifica di stabilità e ottenere come output un file con le sagome da poter ottenere facilmente da compensato con macchine CNC e assemblare ad incastro in totale autonomia. I progetti realizzati possono essere raccolti nella Design Library ospitata dal sito e condivisi con la comunità.

Mozilla Factory Space, Open Furniture per rafforzare il brand

Nel 2013 lo studio di designer NOSIGNER riceve l’incarico di progettare il quartier generale della divisione della Mozilla Foundation di stanza in Giappone (Mozilla Japan). Il team, ragionando sulla missione e sui valori espressi dalla storica fondazione, decide di sperimentare un concetto di “Open Source Furniture” in grado di enfatizzarne il brand. Vengono dunque scelti elementi semplici e facilmente reperibili adattati anche con una certa creatività per un ambiente minimale, ma assolutamente accogliente e funzionale. I file dei componenti sono scaricabili liberamente ed utilizzabili per arredare il proprio ufficio in maniera assolutamente low-cost.

OpenDesk e l’intuizione di mettere a frutto la rete globale di maker

Nel 2014, da una costola del progetto WikiHouse, nasce OpenDesk, una piattaforma in un certo senso molto simile a Slow/d, specializzata nella fabbricazione di elementi di arredo per ufficio in maniera distribuita, locale e sostenibile. La differenza sostanziale rispetto a Slow/d, che ne determina la maggiore rilevanza in ambito Open Source e a livello globale, è la scelta di costruire la rete di manifattura locale attraverso l’ormai capillare presenza di maker su tutto il globo. Ogni laboratorio di fabbricazione digitale (FabLab, HackerSpace, MakerSpace, ecc.) è un potenziale nodo di questa rete e presenta l’immenso vantaggio di offrire macchine accessibili a chiunque e un ambiente pregno di cultura Open Source della collaborazione e della condivisione, in perfetta sintonia con lo spirito dell’iniziativa.

Il modello di business è semplice, ma efficace:

  • I designer creano un catalogo di prodotti che vengono inseriti nell’e-commerce della piattaforma. L’elemento d’arredo può essere scaricato liberamente con licenza che ne vieta l’utilizzo commerciale, ma ne consente la fabbricazione fai-da-te. Quando il prodotto viene invece acquistato, il designer ottiene una quota equa.
  • Quando si acquista un prodotto si ricevono varie offerte dai maker presenti nel proprio territorio, in modo da poter scegliere quella che si ritiene più conveniente (oppure si può scegliere un maker di preferenza che magari gode di una migliore reputazione).
  • Il costo finale del prodotto comprende una quota per il mantenimento della piattaforma online, per le spese di spedizione e per la tassazione (IVA).

La piattaforma offre anche consulenza per l’interior design di spazi che vanno dal piccolo ufficio alla grande azienda. Gli elementi d’arredo possono essere anche personalizzati con loghi e connotati propri del brand dell’azienda. Nel portfolio della piattaforma troviamo organizzazioni ed aziende come Greenpeace, Impact Hub, Digital Ocean e molte altre.

Sedie Open Source a Milano per Expo e Design Week

Tra i progetti speciali della piattaforma Slow/d troviamo la sedia Open Source RJR del designer Mario Alessiani, che ha vinto il contest “100 Different Copies“ indetto per alimentare una filiera collaborativa di 26 artigiani per il Padiglione Società Civile a Expo 2015, Milano.

Invece, durante la Milano Design Week, quest’anno abbiamo potuto ammirare, all’interno del progetto espositivo SBODIO32, la pregevole linea di sedie Open Source FABrics progettate dalla designer e maker israeliana Ningal e concepite per essere realizzate facilmente in qualsiasi laboratorio di fabbricazione digitale e composte da una struttura di compensato, una seduta in pelle colorata tagliata al laser ed elementi di fissaggio e decorativi stampati in 3D in plastica ABS.

Conclusioni

Tutti questi progetti possono magari rappresentare solamente nicchie di mercato o contesti marginali, ma testimoniano come questo modello possa garantire il prestigio della firma del designer applicando al contempo un modello manifatturiero moderno, sostenibile e in grado di esaltare le piccole realtà produttive locali, sia tradizionali che innovative. Da non trascurare la visibilità offerta da queste piattaforme e la viralità propria dei progetti Open Source, per tutti i giovani designer (disposti a mettersi in gioco anche con l’aspetto meritocratico dell’Open Source) che vogliano farsi un nome.

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