Digital Divide di Genere ancora realtà?

Ha ancora senso, all’alba del 2017 parlare di digital divide di genere? Secondo i più autorevoli studi internazionali, pare proprio di sì, se è vero come ha rilevato ITU (International Telecommunication Union) che i tassi di diffusione di Internet sono più elevati per i maschi che per le femmine in tutte le regioni del mondo, con un gap che è di un solo punto percentuale negli US/Canada, di circa 6 punti in Europa ed 8 punti circa nei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” e di 5,5 nei paesi “meno sviluppati”. Guardando a soli 3 anni fa, il fenomeno sarebbe in crescita dell’1% a livello globale, e in via di riduzione in Europa, dove si è passati dal 9.4% del 2013 al 6.9% del 2016.

Fonte: ITU (2016). ICT Facts and Figures 2016.  ICT Data and Statistics Division Telecommunication Development Bureau, Geneva

 

Soprattutto se visti dal nostro angolo di mondo, possono sembrare livelli di diseguaglianza relativi ma il fenomeno ha molte più sfaccettature ed è decisamente più complesso del semplice “tasso di penetrazione” di Internet, dato che disponibilità e costi dell’accesso alla banda larga, uso della rete, e competenze digitali sono tutti fattori che impattano sul digital divide. La maggior parte degli studi hanno evidenziato come anche nel campo dell’accesso e dell’uso delle tecnologie digitali, il genere giochi il suo ruolo nell’intersezione con età, classe sociale/reddito, origine/background etnico,  eventuale disabilità[1].

Soprattutto è urgente uscire dallo stereotipo delle donne come semplici utenti delle ICT, ed iniziare a misura il gender gap non solo rispetto alla fruizione delle tecnologie, ma anche in relazione al loro ruolo come creatrici di artefatti ICT, programmatrici ed imprenditrici nel digitale.

Le diseguaglianze nelle ICT non saranno mai risolte se non aumenterà il numero di donne in queste posizioni e se, in parallelo, non crescerà anche la consapevolezza di quanto lo stesso design delle tecnologie e dei prodotti ICT e i contenuti da essi veicolati possano essere gender biased. Un esempio tra tanti? Non è un caso che la blogger ed esperta femminista di media, Anita Sarkesian, autrice della serie di video Women Vs Tropes che ha puntato il dito contro il sessismo delle community  di creatori e fruitori di videogiochi, abbia dovuto resistere e reagire a ripetute minacce di morte e stupro on line. I messaggi veicolati dal suo Feminist Frequencies, prima come blog poi come fondazione non profit, sono risultati evidentemente molto disturbanti e provocatori.

Il problema nasce alla base, con i numeri bassissimi di ragazze che scelgono percorsi di studio informatici, dalle superiori all’università: in Europa solo una laureata su 3 proviene da facoltà di Informatica o Ingegneria Informatica, in Italia abbiamo l’1,79% delle immatricolazioni femminili in queste facoltà (a fronte del comunque basso 9,99% di quelle maschili)[2]. Per contrastare questa segregazione di genere dei percorsi di studio informatici, sono utilissimi interventi di sensibilizzazioni delle più giovani come quelli messi a punto dai progetti Informatica Sarà Lei di Ca’ Foscari e Ragazze Digitali di EWMD e UniMORE, , e iniziative di respiro europeo come EQUAL-IST Gender Equality in Information Science and Technologies.

C’è poi il settore delle start up femminili, un mondo anch’esso fortemente caratterizzato al maschile, dove il ritratto dello startupper ha tratti di genere, età ed etnia ben precisi: nella stragrande maggioranza  dei casi si tratta di maschi bianchi trentenni, in Europa le donne rappresentano il 19% del totale[3], in Italia solo l’11%[4].

Il progetto WeHubs. The European Network of Women Web-Entrepreneurs,  di cui sono stata tra le principali promotrici e ricercatrici,  ha fotografato in uno studio la situazione delle digital entrepreneurs in Europa, per creare una rete e sensibilizzare i servizi di incubazione ed accelerazione affinché assumano un ruolo attivo nell’attrarre un numero maggiore di donne, non necessariamente con una formazione informatica, verso la fondazione e la gestione di start up digitali.

Su oltre 100 donne imprenditrici digitali intervistate, oltre la metà hanno sostenuto di aver fatto esperienza diretta di stereotipi di genere verso la propria posizione e il proprio ruolo, per oltre un terzo dei casi da imprenditori (uomini) mentre per il 40% delle partecipanti all’indagine, l’atteggiamento biased è venuto da operatori di servizi di consulenza e supporto all’impresa o del sistema bancario, che spesso prendono la forma di sfiducia verso le conoscenze e le competenze di leadership dell’imprenditrice, oltre che della sua ‘solvibilità’ finanziaria, ma non di rado corrispondono a stereotipi ‘positivi’ della femminilità come meno conflittuale o più a suo agio in domini tradizionalmente femminili (cura, servizi alla persona) etc.

Uno dei principali elementi emersi dallo studio va comunque a scardinare quanto emerso da altre ricerche sull’imprenditorialità femminile in generale da cui le donne risulterebbero come ‘carenti’ in fiducia in se stesse: il dato più interessante mostra l’aumentare della fiducia percepita in sé stesse nel passaggio dalla fase di start up al consolidamento. Ciò non toglie come la maggior parte delle rispondenti abbia menzionato l’importanza di fornire modelli di ruolo femminili di imprenditrici del settore come uno dei più importanti assi di intervento su cui i servizi di supporto alle start up dovrebbero puntare per migliorare i propri servizi alle donne.

 

Fonte: “Gender Dimensions and Indicators in Web Entrepreneurship”, Progetto H2020 WeHubs. The European Network of Women Web Entrepreneurs, Project Number 645497, 2015-2016

Infine, altro risultato in qualche modo atteso dello studio: le difficoltà a bilanciare lavoro e vita privata sono descritte come un problema bruciante soprattutto dalle imprenditrici digitali con figli piccoli, sia per la carenza di servizi che per lo scarso supporto dai partner che dagli orari di lavoro pressanti e oltre norma a cui spesso l’attività imprenditoriale conduce.

E’ forte la necessità che gli ecosistemi per le start up digitali si attivino e pongano attenzione a questi problemi, integrando un approccio mirato e sensibile al genere nei propri servizi. E’ per questo che la rete di nodi del progetto WeHubs è stata lanciata in diversi Paesi, ed include finanziatori, consulenti, servizi di incubazione accelerazione e formazione.  Anche la piattaforma WeGate, promossa dalla ONG europea WEP (Women Entrepreneurship Platform) e finanziata dalla CE, si propone di intercettare direttamente le startupper, metterle in rete e offrire loro role models, risorse di conoscenza e opportunità di visibilità e networking.

Un maggior numero di donne imprenditrici del digitale (e programmatrici) ci porterà automaticamente ad avere prodotti e servizi ICT più inclusivi quanto ad usabilità, accessibilità e contenuti?

È un tema che in linea di principio gli studi di genere hanno già affrontato nell’ambito della rappresentanza politica: non necessariamente avere più donne al Governo e nei consigli elettivi ci porterà a politiche pubbliche femministe[5].

Eppure, a volte, e nonostante gli arretramenti sempre dietro l’angolo, ci vuole un po’ di ottimismo e fiducia nei risultati che tutta l’opera di sensibilizzazione portata avanti, da molte, su questi temi ha comunque finito col produrre negli anni. Ho fatto una chiacchierata da poco con Irene Pipola, una delle co-founders di UP2GO: eravamo entrambe relatrici a Digital Social Innovation Fair a Roma poche settimane fa, evento in cui lei presentava la sua start up che ha come core business un’app di car pooling per aziende e organizzazioni che facilitino i/le dipendenti nella condivisione dell’auto per brevi o medie distanze: le imprenditrici hanno pensato e progettato il servizio e stanno sviluppando il business mettendo al centro i bisogni delle donne che lavorano e le esigenze di percezione di sicurezza negli spostamenti in aree urbane, così come i problemi legati al work life balance. Ne deriva un servizio che rivede la nozione di “car driver”, per decenni iper mascolinizzata, offrendo un servizio a uomini e donne realmente inclusivo e proponendo alle aziende uno strumento utile da mettere a disposizione di lavoratrici e lavoratori per favorire l’equilibrio vita-lavoro oltre che la socializzazione tra colleghi.

Basta dare un’occhiata alle “success stories” e alle “best practices”  dei portali WeHubs e WeGate per scoprire che casi simili si diffondono: per ritornare alle critiche femministe all’industria dei videogiochi di Anita Sarkesian, le prime risposte in positivo arrivano non a caso, proprio da imprenditrici della videogame industry come Lucia Hill-Rains, che con la sua azienda PunchDrunkGames ha dichiarato di voler “dar vita ad una rivoluzione femminista” nel settore, creando giochi che partano dalla qualità dei personaggi femminili, visto che, tra l’altro, oltre il 48% dei gamers è di sesso femminile[6].

 

[1] Colley, A. & Maltby, J. (2008). The impact of internet into our lives. Male and female personal

perspectives. Computers in Human Behaviours, 24, 2005-2013.

Brandtzaeg, P.B., Heim, J. & A. Karahasanovic (2011). Understanding the new digital divide—A typology of Internet users in Europe. International Journal of Human- Computer Studies, 6 (3), 123-138.

[2]Boschetto, e.,  Candiello, a., Cortesi, A., F. Fignani (2013). Donne e Tecnologie Informatiche. Un approfondimento quantitativo e qualitativo. Edizioni Ca’ Foscari, Venezia

[3] European Commission. (2013). Study on women active in the ICT sector. Luxembourg. http://doi.org/10.2759/27822

[4] Mind the Bridge (2012). Start ups in Italy. Facts and Trends. Link

[5] Lovenduski, J. (ed.) (2005). State Feminism and Political Representation. Cambridge, Cambridge University Press.

[6] https://www.washingtonpost.com/news/morning-mix/wp/2014/08/22/adult-women-gamers-outnumber-teenage-boys/?utm_term=.b9203417d51c

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Laureata in filosofia e PhD in Scienze della Cognizione e della Formazione, lavora da oltre 15 anni nella progettazione europea applicata alla promozione dell'uguaglianza di genere, prima con enti locali italiani, poi con Ong e società di consulenza europee, con ruoli di project coordinator, ricercatrice e formatrice. Dal 2008 si è specializzata sui temi dell'innovazione e delle smart cities con approccio di genere. Al presente si occupa delle stesse tematiche sia attraverso la start up di cui è co-founder e CEO, Smart Venice srl, che come assegnista di ricerca a Ca' Foscari Dipartimento di Informatica nel team del progetto EQUAL-IST. Per la Commissione Europea coordina il Citizen Focus Action Cluster della European Innovation Partnership for Smart Cities and Communities.

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