Innovatrici cercasi

Quanto l’innovazione, ovvero la capacità di creare progresso migliorando qualcosa, è associata alle donne storicamente? Quanto invece si associa oggi la parola innovazione alla tecnologia, tagliando inevitabilmente fuori in questo modo le donne dal panorama dei papabili “miglioratori” del mondo?

Abbiamo fatto un test con i nostri visionist chiedendo loro di segnalare una donna innovatrice. Ed ecco il ritratto dell’innovazione che ne è uscito:

Dorothea Lange, il nome suggerito da Valentina Spotti. Negli anni Trenta la fotografia non era più una novità: tutti sapevano cos’era e a come poteva essere usata. Poi, a San Francisco, una fotografa di nome Dorothea Lange comincia a fotografare quei soggetti che, fino a quel momento, erano “invisibili” anche agli obiettivi delle macchine fotografiche: operai, poveri e senzatetto di un Paese alle prese con una crisi economica senza precedenti. Da lì a fotografare l’America rurale della Grande Depressione il passo fu breve: grazie a quelle foto Dorothea, all’epoca quasi quarantenne e con un grave handicap causatole dalla poliomielite avuta da bambina, divenne una delle fotografe di punta della FSA, il famoso programma del governo statunitense per portare alla luce le condizioni di migliaia di famiglie stremate dalla povertà.
Non sempre l’innovazione è inventare un nuovo mezzo o strumento: talvolta innovare significa utilizzare qualcosa che già esiste per creare nuovo significato. La fotografia documentaristica esisteva già da diversi anni, ma era considerato un linguaggio di nicchia: grazie anche al lavoro di Dorothea Lange – una tra i primi fotografi del mondo, uomini e donne, a intraprendere questa strada – diventava invece un veicolo per raccontare delle storie, storie che sono arrivate fino ai nostri giorni.

Annalisa Monfreda, laurea in lettere moderne all’università di Bari, master in giornalismo all’università di Urbino, viene suggerita da Chiara Taddei. Nel 2005 entra in Gruner+Jahr/Mondadori nella redazione di Geo, nel 2008 diventa direttore di Topgirl,poi di Geo e Cosmpolitan. Quattro anni fa Annalisa Monfreda ha assunto la direzione del settimanale Donna Moderna, una delle direttrici di testate editoriali più giovani di sempre. Per dare qualche numero sui risultati raggiunti: l’audience complessiva di Donna Moderna è passata dai 370.849 utenti unici nel 2015 a 581.962 nel 2016 (+56,9%); l’audience organica è quasi triplicata, passando da 143.811 a 413.819 utenti unici (+187,7%) secondo Audiweb. Sono 570.569 i fan su Facebook, 479.000 i follower su Twitter e 51.800 i follower su Instagram. Ad essere innovativo il processo questa donna ha portato nel modo di concepire, scrivere e veicolare i contenuti. Ha introdotto all’interno e all’esterno della redazione i concetti di partecipazione, di digitale, di formazione e organizzazione, creando un ecosistema dove i lettori possono muoversi su tre livelli di partecipazione fino a divenire non solo co-creatori di contenuti, ma anche fruitori di una vera e propria scuola digitale. In copertina gli utenti hanno preso il posto delle modelle, sono diventati commentatori, opinionisti e, soprattutto, la principale fonte di ispirazione della rivista. Ho passato il fine settimana a cercare di capire l’origine del successo di questa donna che, senza paura, ammette di essersi trovata a trent’anni alla guida di una macchina senza sapere quasi come accenderla. Una direttrice che si pone ai suoi colleghi come una spugna assetata di conoscenza, consapevole che le sue idee potrebbero non funzionare, ma che provare è meglio di niente. Credo che quello che la contraddistingua sia il coraggio: ad esempio di leggere la rivista di cui sei responsabile solo dopo che è già andata in stampa, per responsabilizzare e stimolare il team. Il coraggio di raccontarsi ai lettori nelle proprie imperfezioni di mamma, moglie, leader e donna moderna.

Elisabeth Kübler-Ross, dice Italo Vignoli, è stata una psichiatra svizzera (Zurigo, 1926 – Scottsdale, Arizona, 2004), poco conosciuta al di fuori del suo ambiente, ma universalmente nota tra gli addetti ai lavori per i suoi
studi sull’elaborazione del lutto, che hanno dato origine a un’ampia letteratura sulla gestione del cambiamento. Anche il software libero deve qualcosa a Elisabeth, visto che le strategie di comunicazione tese a ridurre l’impatto delle migrazioni dal software proprietario al software open source partono dall’analisi dei cinque stadi di reazione psichica al cambiamento che ha descritto nei suoi studi: diniego, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione.

Due gli esempi di donne di Marco Alici, che vivono un approccio alla tecnologia e all’innovazione decisamente antitetico (ma con dei punti in comune): Samantha Cristoforetti e Simone Giertz.
“AstroSamantha”, prima astronauta donna italiana, 199 giorni (record femminile) di permanenza in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale. Dalle montagne di Malè allo spazio con passione e talento, ma anche rigore, disciplina e tanto addestramento, perché “lassù” non è proprio il caso di fare errori.
Simone Giertz, autodefinita “the Qeen of Shitty Robots”, ventenne svedese, nessun background tecnico, inventa e costruisce robot per l’automazione di attività quotidiane: lavarsi i denti, asciugarsi i capelli, mettere il rossetto. Per nessun’altra apparente ragione oltre divertimento nel farlo. Come il suo “titolo” lascia intuire, il funzionamento delle sue macchine lascia assai a desiderare. Ma il canale youtube dove mostra i suoi lavori conta quasi mezzo milione di iscritti. I suoi video sono uno spasso. Il messaggio “la tecnologia è divertente” arriva.
Ma i punti in comune? L’empatia, la capacità di comunicare, di trasmettere a chi ascolta l’entusiasmo e la passione per quello che fanno. Come se fosse facile.

Caratteristiche forse che accomunano tutte le donne, che diventano innovatrici e in grado di migliorare il mondo non appena nella vita riescono a fare quello che amano.

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