OOXML: quando uno standard non è uno standard

Open Document Format (ODF, standard ISO/IEC 26300) è stato progettato per essere un formato standard e aperto per l’interoperabilità dei documenti da ufficio, in quanto basato su convenzioni e standard già esistenti e ampiamente riconosciuti. Microsoft, nonostante fosse da tempo membro del consorzio OASIS – l’organizzazione per il progresso degli standard aperti per la società dell’informazione – ha rifiutato qualsiasi coinvolgimento nel processo di standardizzazione di ODF, e ha proposto la propria versione – ma sarebbe forse meglio dire concezione – del formato standard con Office Open XML (OOXML), una XMLizzazione dei propri formati proprietari che non ha nulla a che vedere con l’interoperabilità.

L’obiettivo di un formato standard è quello di facilitare l’interoperabilità tra i software, e non di garantire la compatibilità con un passato di formati proprietari. Purtroppo, un formato standard non potrà mai essere perfetto al punto da soddisfare tutti gli utenti, perché è il frutto di compromessi tra le parti coinvolte nella sua definizione, e perché ci sono enormi problemi tecnici da risolvere per un’interoperabilità trasparente tra piattaforme hardware, sistemi operativi e programmi applicativi.

In questo, ODF si avvicina a un risultato soddisfacente per il maggior numero di utenti molto di più di OOXML, proprio perché è stato progettato per l’interoperabilità e non per la compatibilità a ritroso con i vecchi formati proprietari. ODF è uno standard adatto a un mercato libero, e OOXML è uno standard adatto a un mercato in cui c’è un’evidente situazione di monopolio (una cosa su cui le autorità – a livello mondiale – avrebbero dovuto vegliare, e invece non lo hanno mai fatto).

Tra l’altro, i documenti di Microsoft Office sono noti per essere spesso incompatibili tra loro, se prodotti da due diverse versioni dello stesso software (una cosa abbastanza frequente se le versioni non sono contigue), per cui sono l’antitesi dell’interoperabilità. OOXML, tra l’altro, non rispetta – perché ridefinisce – una serie di standard ISO: formati della carta (ISO 216), codici linguistici (ISO 639), scrittura di date e orari ( ISO 8601) e nomi dei colori (ISO/IEC 15445). Questi standard ISO sono in grado di gestire tutti i dati delle rispettive tipologie generati dai software per la produttività individuale, e per questo motivo dovrebbero essere adottati e soprattutto rispettati.
Inoltre, OOXML non rispetta il Calendario Gregoriano, in quanto tratta il 1900 come anno bisestile, e non è in grado di gestire le date precedenti al 31 dicembre 1899, in quanto rappresenta le date con un numero progressivo a partire dal 31 dicembre 1899 o dal 1 gennaio 1900, a seconda della configurazione del software, piuttosto che secondo le indicazioni dello standard.

Per concludere, lo standard ISO 8879 afferma che i tag SGML dovrebbero essere “leggibili”, mentre OOXML non solo utilizza tag abbreviati e spesso criptici, ma li usa anche in modo poco coerente al suo interno, come dimostrano i tag “scrgbClr”, “algn”, “dir” e “w”. OOXML fa riferimento a “Enhanced Metafiles” e “Windows Metafiles2, formati proprietari Microsoft che non dovrebbero trovare posto in un formato standard, e dovrebbero essere sostituiti dal formato Computer Graphics Metafile (ISO 8632).

Ovviamente, non è tutto, perché ci sono altri problemi come la gestione delle percentuali, che possono essere rappresentate in quattro modi completamente diversi a seconda della sezione delle specifiche OOXML con cui si ha a che fare, ma dovremmo entrare all’interno di dettagli tecnici un po’ troppo complessi per la maggior parte dei lettori.

Tutto questo è stato confermato, anche se indirettamente, da un’intervista scritta che la giornalista Mary Jo Foley di ZDNet, una delle principali esperte del mondo Microsoft, ha realizzato con Tom Robertson di Microsoft. Quest’ultimo ha affermato che l’evoluzione verso OOXML era una mossa strategica importante per proteggere la quota di mercato di Microsoft Office nei confronti degli altri software per la produttività, confermando che la scelta non era legata all’interoperabilità ma al tentativo – purtroppo riuscito, per colpa di ISO e dell’atteggiamento “pilatesco” dei Governi – di creare confusione tra gli utenti.

Microsoft non ha alcun interesse verso gli standard aperti, perché questi – se utilizzati su larga scala – riuscirebbero a trasformare il mercato delle suite per ufficio togliendo il potere alle aziende e trasferendolo agli utenti, che avrebbero la possibilità di scegliere il software migliore per le loro esigenze tra tutti quelli che supportano lo standard per l’interoperabilità, ovvero ODF.

Microsoft afferma di aver modificato il proprio atteggiamento verso il software open source, ma nella realtà lo ha fatto solo in quelle aree in cui aveva perso quote di mercato significative e quindi non aveva nulla da perdere, come nel mondo dei server dove Linux – grazie alla sua superiorità – è diventato il sistema operativo di riferimento. Purtroppo, continua ad attaccare in modo aggressivo il software libero e i formati aperti sul desktop, dove continua ad avere una posizione di monopolio sia per l’atteggiamento compiacente dei Governi sia per l’effetto di “ammanettamento” degli utenti attraverso il suo formato pseudo-standard.

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Laureato in Lettere all’Università Statale di Milano, è uno dei fondatori di The Document Foundation, la "casa di LibreOffice", nonchè portavoce del progetto a livello internazionale; è anche fondatore e presidente onorario della neonata Associazione LibreItalia. Ha partecipato ad alcuni tra i principali progetti di migrazione a LibreOffice, sia nella fase iniziale di analisi che in quella di comunicazione orientata alla gestione del cambiamento. Ed è autore dei protocolli per le migrazioni e la formazione, sulla base dei quali vengono certificati i professionisti nelle due discipline. In questa veste è coordinatore della commissione di certificazione. Come esperto di standard dei documenti, ha partecipato alla commissione dell'Agenzia per l'Italia Digitale per il Regolamento Applicativo dell'Articolo 68 del Codice dell'Amministrazione Digitale.

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