Precision farming: la sfida dell’agricoltura 4.0 è open source

La popolazione mondiale è attualmente composta da circa 7,5 miliardi di persone, di queste quasi 1 miliardo soffre la fame. Parallelamente, ogni anno si sprecano circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, una quantità che garantirebbe di sfamare ben 3 miliardi di persone (dati via “Stop Wasting Food movement Denmark”). Le stime dell’ONU, secondo Wikipedia, ci dicono che per il 2030 la popolazione salirà a 8,5 miliardi. Che misure intendiamo prendere? Dobbiamo spremere ulteriormente le risorse del nostro pianeta (quando c’è chi afferma che abbiamo già superato il punto di non ritorno) o avviare urgentemente un processo di sostenibilità? E quali sono realisticamente i margini della lotta allo spreco?

Guardiamo al recente caso di successo della Danimarca che, grazie all’incessante impegno dell’ONG “Stop Spild Af Mad” (Stop Wasting Food movement Denmark) guidata da Selina Juul, è riuscita a ridurlo del 25% nell’arco di 5 anni, secondo EURACTIV. Questo significa che, se anche da domani stesso seguissimo (auspicabilmente) tutti il virtuoso esempio danese, il risultato non ci metterebbe comunque in sicurezza per il 2030. Serve uno sforzo complementare.

Migliorare il rendimento delle colture attraverso la trasformazione digitale

Se è vero che abbiamo superato il punto di non ritorno (o siamo comunque molto vicini dal farlo) sullo sfruttamento delle risorse del nostro pianeta, l’unica strada è migliorare l’efficienza dei processi e nell’ambito dell’agricoltura questa strategia è al centro del concetto di Precision Farming (agricoltura di precisione). L’idea è portare le migliori tecnologie digitali, sostanzialmente le stesse che nell’ambito industriale spingono il trend Industry 4.0, al servizio del monitoraggio delle colture, dell’analisi del terreno e delle strategie di intervento mirate. Uno scenario fatto di droni, trattori e mietitrebbie con guida assistita via GPS, o addirittura a guida autonoma, macchine per il dosaggio variabile, per il prelievo campioni e così via.

farmOS e il modello collaborativo applicato alla ricerca agreste

Come per molti casi di successo Open Source, farmOS parte dall’iniziativa “illuminata” di un singolo, in questo caso lo sviluppatore Michael Stenta, i cui valori vengono condivisi da una comunità che diventa il cuore pulsante del progetto. farmOS è una piattaforma web basata su Drupal, quindi robusta, modulare e facilmente scalabile, pensata per gestire, pianificare e tenere traccia di dati e informazioni della propria azienda agricola. Le librerie di OpenLayers consentono in aggiunta di mappare e gestire i dati georeferenziati.

Il percorso di Michael inizia nel 2010, aiutando un amico ad avviare una piccola CSA (Community Supported Agriculture, un concetto simile alle nostre aziende che distribuiscono a km zero) nel Connecticut, un’esperienza che lo segnerà profondamente e gli darà l’ispirazione per sviluppare farmOS. Il primo codice nasce per servire la piccola realtà della CSA, ma presto gli obiettivi diventano ambiziosi e la piattaforma mira a gestire di tutto: piante, animali, attrezzature, terreni, allevamenti di api, coltivazione di funghi, piantagioni di aceri, eccetera, ad adattarsi ad attività di qualsiasi dimensione: piccola, industriale, permacultura, fattoria, urbana, rurale, indoor, acquaponica, e così via, e ad essere accessibile da qualsiasi postazione e device (basta un web browser).

Raccogliere, organizzare, elaborare e condividere le informazioni

Al centro del progetto ci sono i dati, quindi la possibilità di raccoglierli e organizzarli per monitorare la situazione, di elaborarli per fare previsioni e pianificare le attività, di condividerli per fare rete, ricerca o fornire servizi. La gestione integrata delle mappe e dei dati riferiti geograficamente dà un enorme valore aggiunto.

Le buone pratiche sono contagiose e dal software si passa all’hardware

Il modello collaborativo, quando funziona a dovere, diventa contagioso e virale ed ecco che, a supporto della comunità di farmOS, nasce Farm Hack, una comunità che vuole ribaltare il paradigma culturale per cui strumenti hardware e attrezzature agricole debbano essere chiusi ed esclusivi, aggregando quindi ingegneri, architetti, designer, creativi, programmatori, hacker e chiunque voglia dare un contributo per costruire un’agricoltura “resiliente”, basata sulla condivisione dei progetti e delle buone pratiche in una maniera un po’ più anarchica (e quindi imprevedibile) di Open Source Ecology. Il risultato di insieme è un sorprendente mix di cultura maker, hacking e tradizione per un’agricoltura reinventata, inclusiva ed innovativa.

E in Italia?

Ad oggi il settore agroalimentare in Italia incide sul Pil per il 17% secondo Mestiere Impresa e si dice avere ampie possibilità di crescita, ma l’analisi di Mario Guidi, Presidente di Confagricoltura, sembra un tipico refrain italico: “Manca una normativa ad hoc per agevolare la trasformazione digitale del settore“, “Alcuni agricoltori lo hanno già fatto per conto loro, ma tanti altri invece non ce la fanno“, “Serve più sostegno“, eccetera eccetera. Ma abbracciare un po’ di cultura Open invece? E magari comprendere che il modello collaborativo permette di innovare senza presentarsi col solito cappello in mano dinnanzi a nessuno? E scoprire che l’innovazione forse non è abbracciare un po’ di tecnologie, ma un nuovo modo di tessere e gestire le relazioni tra player, bypassando istituzioni, rappresentanze, resistenze, per andare dritto al sodo. Ma forse parliamo di fantascienza piuttosto che agricoltura.

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