Sul liceo “corto” e la scuola italiana

Il Governo sta avviando la sperimentazione del liceo ridotto a quattro anni. Secondo i proponenti, questo percorso “accorciato” servirebbe per allinearci agli standard europei e accelerare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.

Come spesso accade, ahimé, mi paiono temi importanti affrontati in modo insufficiente. Secondo alcuni, addirittura, si tratterebbe solo di una operazione per tagliare costi.

Ma andiamo per passi.

Un tema cruciale

Come scrivevo tempo fa, l’automazione e lo sviluppo tecnologico richiedono persone con profili professionali più elevati.

Inoltre, il nostro Paese ha un basso numero di laureati e alti tassi di analfabetismo funzionale. È quindi indubbio che si debba investire in educazione e formazione, anche innovando modalità didattiche e percorsi di studio.

Se questi obiettivi sono certamente più che condivisibili, la riforma dei quattro anni mi pare un pasticcio, per di più condito da affermazioni quando meno discutibili.

I tempi di ingresso nel mondo del lavoro

Si dice che i nostri giovani siano penalizzati rispetto ai loro coetanei europei perché arrivano nel mondo del lavoro più tardi e ciò dipenderebbe dalla struttura dei nostri percorsi formativi.

È così?

Oggi un giovane può entrare nel mondo del lavoro a diverse età (dando per scontato che il suo percorso di studi vada oltre le scuole medie):

  • alla fine delle scuole superiori, quindi a 19 anni. In realtà esistono anche percorsi professionali secondari che hanno una durata inferiore a cinque anni
  • dopo la laurea triennale, a 22 anni
  • dopo laurea triennale e master di primo livello, a 23 anni
  • dopo la laura specialistica a 24 anni
  • dopo laurea specialistica e master di secondo livello, a 25 anni
  • dopo il PhD, con tempi più lunghi.

Pensiamo veramente che i nostri giovani possano competere con i loro coetani europei senza un titolo di studio universitario? E considerando quindi anche l’università, quale sarebbe la differenza rispetto al resto del mondo?

Peraltro, basta dare un’occhiata ai dati per capire che siamo sostanzialmente in linea con gli altri Paesi, anche quando considerassimo solo la durata degli studi secondari.

Per quanto riguarda i percorsi universitari, ricordo che il 3+2 (modello Bologna) è adottato a livello europeo e che il bachelor in USA (primo livello) dura quattro anni (e in alcuni casi di più). Quindi la struttura dei percorsi di studio, considerando scuola superiore e università, è sostanzialmente uguale in Italia e all’estero. E checché se ne dica, i nostri laureati all’estero sono sempre valutati molto bene. Perché parliamo di fuga dei cervelli? Perché dovrebbero assumerli se non sono mediamente bravi? Dove si sarebbero formati questi cervelli in fuga?

I veri problemi sono altri, ahimè (non mi piace fare il “benaltrista”, ma così stanno le cose):

  1. Troppi giovani non sviluppano o completano un percorso di studi superiore e/o universitario
  2. Troppi giovani impiegano più del necessario per completare il loro percorso di studi all’università
  3. Troppi giovani seguono percorsi di studio che non garantiscono loro un facile ingresso nel mondo del lavoro (si pensi alla questione delle cosiddette “lauree deboli”).

Scrivevo di questi temi tempo fa in un altro articolo:

Questa sperimentazione dei quattro anni incide su questi temi? Non mi pare proprio. In cosa? Dove?

Una riforma che non finisce mai

Il mondo della scuola è in costante fase di cambiamento. Non c’è ministro che non abbia voluto fare la sua riforma. Date un’occhiata a questa interessante pagina di Wikipedia con la storia delle riforme in Italia.

Come è possibile costruire un sistema formativo solido e serio se continua incessantemente a cambiare? Possibile che non si riesca a consolidare un modello che dia certezza e continuità? Che bisogno c’era di quest’altra operazione che aggiunge un ulteriore elemento di complessità in un contesto così fluido?

Nuovi modelli di apprendimento?

Si dice che questa riforma potrà basarsi su modelli formativi innovativi. Bene, come verranno finanziati e avviati? A costo zero? Chi li porterà avanti?

E perché queste innovazioni non si possono fare nei percorsi classici di cinque anni?

Il tempo e i problemi della formazione

L’apprendimento ha proprie dinamiche e tempistiche. Non è vero che tutto si può comprimere a piacimento. Inoltre, i giovani non devono solo apprendere nozioni: devono crescere e maturare.

Il tema più complesso che dobbiamo affrontare oggi è la trasformazione degli obiettivi didattici, come scrivevo in quest’altro articolo:

L’allungamento della vita lavorativa e il rapido mutamento delle tecnologie e degli scenari economici pongono nuove sfide a educatori e studenti. Dobbiamo evitare che i nostri giovani siano sommersi di nozioni e non “imparino ad imparare”. Dobbiamo evitare che i nostri giovani vengano spinti ad apprenderemo procedure per “fare le cose” e non a capire perché le fanno. Manca (o va sostenuto in modo molto più deciso) lo sviluppo di spirito critico e di competenze di base approfondite, vitali per entrare in un mondo del lavoro che si estende dai 22–25 anni fino ad oltre 65 e che richiede a tutti di cambiare ed evolvere continuamente.

Troppi “influencer” si preoccupano del breve periodo, di una formazione pragmatica e utilitaristica, di “buttare fuori i ragazzi” il prima possibile nel mondo del lavoro senza pensare a quale sarà la loro storia nei successivi 40 anni.

Un messaggio politico sbagliato

In generale, in un Paese con tassi di analfabetismo funzionale elevato dovremmo spingere per un maggiore approfondimento e sviluppo dei percorsi educativi e non dare il messaggio che «bisogna fare in fretta». È fuori luogo, non ha motivazioni reali e soprattutto rafforza l’idea che bisogna studiare quanto basta, il meno possibile.

È un messaggio sbagliato dal punto di vista educativo, sociale e politico. Dobbiamo investire su scuola, università e educazione e, in particolare, sulla crescita professionale dei docenti e degli educatori. Dobbiamo garantire ai nostri giovani percorsi educativi allineati agli standard internazionali sui contenuti e sulla qualità, e non tanto sulla loro durata curriculare.

È con i quattro anni al liceo che raggiungiamo questi obiettivi? Non mi pare proprio. Il rischio è che diventi l’ennesima arma di distrazione di massa rispetto ai problemi e alle sfide che il nostro Paese deve affrontare e gestire.

P.S.: onde evitare polemiche inutili e pretestuose, so bene che ci sono anche problemi sul lato della valutazione dei docenti, delle scuole e delle università. Ne ho parlato altre volte e certamente sono temi importantissimi. Non è possibile affrontarli tutti in un unico articolo.

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