L’etichetta 2.0 campeggia su molte cose, didattica compresa. Al di là della “versione”, però, ci sono testi che, attraverso esperienze di “didattica vissuta” spiegano come questa evolve con il cambiare degli scenari e soprattutto degli strumenti che si hanno a disposizione. E’ il caso di DidatticaDuePuntoZero, libro curato da Alberto Panzarasa, dirigente scolastico in una scuola di Vigevano e parte attiva di una rete di scuole che ha sperimentato il modello dell’openness e della condivisione come carburante per l’innovazione del modo di insegnare. A lui e a Simone Aliprandi, avvocato esperto di diritto della comunicazione e delle nuove tecnologie, abbiamo rivolto alcune domande sul rapporto che c’è tra condivisione, sapere aperto e nuovi modi di apprendere a scuola.
Qual è il ruolo delle community nella Digital transformation della scuola?
Le community – afferma Panzarasa – possono avere un ruolo chiave nell’introdurre e promuovere sperimentazioni efficaci di didattica digitale nelle scuole. Se ci pensiamo in questi anni i finanziamenti sulle tecnologie da parte del MIUR, sotto varie forme, non sono stati scarsi; ora è il momento di vedere le ricadute nella didattica e soprattutto nel miglioramento degli apprendimenti degli allievi. La mia impressione è che gli investimenti non siano stati così efficaci sempre. Nelle scuole molto spesso abbiamo bravi docenti interessati alla didattica digitale, ma spesso manca il confronto su tematiche strettamente legate alla didattica e all’introduzione in questa delle tecnologie. La formazione dei docenti, la promozione di attività di sperimentazione di nuove metodologie didattiche e le community, intese come luogo privilegiato d’incontro, possono davvero portare a un reale rinnovamento. In particolare le community che possono nascere in modo spontaneo oppure legate a reti di scuole possono essere un luogo privilegiato in cui proporre metodologie di ricerca-azione, presentare e proporre risultati di sperimentazioni didattiche, far nascere idee e collaborazioni.
Tanto si parla di innovazione didattica, quali gli elementi necessari per cambiare (in meglio) l’apprendimento?
Va tenuto conto in primo luogo – continua Panzarasa – proprio della ricaduta sui ragazzi. Si parte da questa. Il primo importante elemento è costituito dall’analisi di ciò che non funziona e non fornisce i risultati sperati. Tra gli elementi propedeutici all’innovazione didattica, poi, abbiamo sicuramente la formazione del personale docente su cui, dallo scorso anno, finalmente il MIUR ha ripreso ad investire. I percorsi di formazione sono un punto di partenza per creare dialogo fra insegnanti, per far nascere nuove idee e nuove proposte educative, per riflettere su nuovi modi di proporre i contenuti e raggiungere competenze. Le innovazioni vanno poi sperimentate sul campo, anche in modo critico, facendo alla fine dei bilanci di ciò che ha funzionato e di ciò che va rivisto. In giro stanno finalmente nascendo molte nuove idee, la tecnologia di per sé non è innovazione, la tecnologia può aiutare a rinnovare e migliorare gli approcci didattici, può stimolare la fantasia del docente aprendo nuove possibilità di proporre e trasmettere. Sicuramente per rendere la nostra didattica più efficace dobbiamo puntare su metodologie che siano più esperienziali, più laboratoriali. La didattica è ancora troppo spesso strutturata sui contenuti.
Openness e scuola: tra tanto cloud e piattaforme proprietarie e gratuite come potrà resistere questa relazione (se c’è una relazione avviata)?
L’openness a scuola, come in realtà in molti altri contesti del settore pubblico, sembra sempre più una chimera. Se ne parla da anni – dice Simone Aliprandi – ma le resistenze e il lock-in a favore delle tecnologie proprietarie sembrano sempre più forti. Negli ultimi anni, quando i tempi per un passaggio dagli applicativi proprietari a quelli open source sembravano maturi, vi è stata l’esplosione del cosiddetto “cloud”, cioè di tutte quelle piattaforme accessibili da remoto attraverso il web con cui i docenti e gli amministrativi possono gestire l’attività didattica. L’utilizzo di questi strumenti non è negativo in sé, ma diventa pericoloso se utilizzato senza un’adeguata consapevolezza in merito alla gestione dei dati personali che vengono caricati su queste piattaforme e anche dei diritti d’autore se si tratta di opere creative. Ovviamente, le società che offrono questi servizi (formalmente gratuiti) fanno attività di business proprio grazie alle informazioni che noi carichiamo; e questo potrebbe essere un problema serio se i dati riguardano dei minori.
Se spostiamo il focus dall’ambito degli applicativi a quello dei contenuti, qual è secondo voi l’approccio più innovativo alla produzione di contenuti didattici?
In questo settore – continua Aliprandi – lo slancio innovativo è stato più deciso, nonostante anche qui le resistenze da parte del mondo dell’editoria scolastica siano tuttora ancora forti. Ciò è stato anche agevolato dal Piano Nazionale Scuola Digitale del 2015 che si è espressamente sbilanciato in questa direzione, individuando un’apposita “azione”: la numero 23 dedicata proprio alla promozione delle risorse educative aperte e all’autoproduzione di contenuti didattici digitali. I docenti quindi sono sempre più incoraggiati ad uscire dall’ottica passiva della tradizionale “adozione” di un testo preconfezionato e a farsi più attivi e creativi, con la preparazione di materiali didattici “artigianali” e il più possibile realizzati in ottica collaborativa e open. In questo contesto diventa fondamentale quindi una maggior consapevolezza dei principi di base del diritto d’autore e una discreta conoscenza delle licenze open per contenuti creativi (Creative Commons e simili).
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