Il senso dello studiare

Questo articolo è un estratto da un libro sul quale sto lavorando. Ogni commento è benvenuto.

Tempo fa, uno studente inserì un commento nelle note della valutazione della didattica che ogni anno viene svolta (in modo anonimo) per il corso che tengo al Politecnico di Milano. È un corso del primo semestre del primo anno della laurea triennale e quindi è frequentato da persone di 19 anni appena diplomate. Sono per lo più ragazze e ragazzi provenienti dal Liceo Scientifico.

Lo studente scrisse (vado a memoria) un commento di questo tenore:

“All’esame, il docente propone domande non standard.”

Al momento rimasi alquanto interdetto. Cosa vuol dire “domande standard”? Detto alla Facoltà di Ingegneria per di più, dove dovremmo imparare a risolvere problemi di qualunque tipo e natura. Riflettendoci, in seguito capii il senso di quel commento. I nostri giovani sono sempre più abituati a confrontarsi con una didattica che — estremizzo volutamente — ha la forma e la logica dei quiz della patente: domande predefinite per ciascuna delle quali esiste un set di risposte all’interno delle quali selezionare “quella giusta”. Se vogliamo, una parte dei test PISA ha la stessa struttura e anche in molti Paesi (per primi gli Stati Uniti) molte attività di valutazione seguono quest’approccio.

In questa visione, il commento dello studente ha un senso: porre domande aperte, proporre problemi da risolvere, richiedere un ragionamento su un qualche tema va ben oltre il dover selezionare “la risposta giusta”. Non basta fare “pattern matching” tra domanda e ”risposta giusta” come nei quiz della patente. Per rispondere ai quesiti che avevo formulato, nel mio mondo dell’ingegneria e delle materie tecniche, servono due cose:

  1. Aver fatto propri concetti, principi, leggi, nozioni utili ad inquadrare e risolvere il problema.
  2. Aver sviluppato la capacità di ragionare e applicare un metodo di lavoro sistematico che ci accompagna passo passo dalla strutturazione e comprensione del problema verso la sua risoluzione.

Indubbiamente, questa maturità nell’affrontare un problema non si acquisisce in un solo insegnamento per di più del primo anno. E infatti al momento della laurea noto con grande soddisfazione gli enormi miglioramenti che normalmente gli studenti presentano rispetto al (fisiologico) disorientamento che li contraddistingue nei loro primi giorni e mesi all’università.

Tuttavia, questo piccolo episodio rimanda ad una serie di questioni molto importanti e che sono lungi dall’essere state risolte. Per molti versi, in realtà, ho la sensazione che ci siamo incamminati lungo una strada sbagliata e che dobbiamo assolutamente lasciare per affrontare in modo serio proprio i due punti che indicavo in precedenza.

In primo luogo, per combattere quello che chiamavamo “nozionismo” (che peraltro poi ritorna sotto le mentite spoglie dei quiz a risposta multipla) siamo troppo spesso passati all’estremo opposto. Chiediamo ai nostri giovani un generico “saper ragionare e lavorare insieme”, dimenticando che tutto ciò deve basarsi sulla conoscenza (vera e non superficiale) di concetti, principi, fatti, nozioni (sì, nozioni!) che costituiscono il bagaglio di strumenti e dati utili per inquadrare un problema, comprenderne caratteristiche e dinamiche, valutarne criticità e parametri prestazionali. Per far ciò, molto semplicemente, è innanzitutto necessario studiare: non basta “stare attenti a lezione” o rileggere qualche slide, moderni bignami che dovremmo vietare in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Serve lo studio approfondito, faticoso, ragionato, centrato sulla lettura di testi organici, il loro raffronto, l’analisi di fonti alternative, il confronto con i colleghi e i docenti, l’applicazione di quanto studiato in una molteplicità di casi, non standard, sfidanti. Come discuterò in seguito, non basta “ascoltare e aver la sensazione di aver capito”. C’è una profonda differenza tra la fase di ascolto e analisi, e quella di sintesi e applicazione. La “sindrome della pagina bianca” che colpisce lo scrittore o chi si vuole cimentare nella produzione di un testo minimamente complesso esprime esattamente questo fenomeno.

In secondo luogo, risolvere un problema richiede l’applicazione di un ragionamento, di un metodo di analisi del problema e di progressione verso la costruzione della soluzione. Non bastano improvvisazione o intuizione o un generico “saper lavorare in gruppo”; né ci si può illudere che esistano sempre procedure standardizzate che in modo meccanicistico, predeterminato e quindi per certi versi deresponsabilizzante, ci permettano di ”calcolare” la soluzione. Servono metodo di lavoro, disciplina, ragionamento strutturato, capacità critica e di confronto.

In poche parole, dobbiamo recuperare il senso e il significato dello studiare, e la fatica della costruzione di un vero sapere che rifugge sia da un superficiale nozionismo, sia da un generico saper lavorare insieme e dallo sviluppo di “soft skills” tanto di moda di questi tempi.

Perché è importante proporre queste riflessioni parlando del mondo della rete e del digitale?

Per molti, la rete è una enorme enciclopedia all’interno della quale è possibile trovare in modo semplice e diretto qualunque risposta ad ogni problema che ci venga posto. “Basta cercare” e si trova tutto. Questa visione è l’apoteosi del pattern matching. Non serve studiare o analizzare in modo critico fatti, concetti, dati. Basta formulare la domanda giusta e si ottiene immediatamente la risposta desiderata.

Secondo questa logica si è sviluppata la piaga del “cut & paste” compulsivo e cieco, che estrae pezzi di testi, grafici, diagrammi, spesso completamente decontestualizzati o dall’origine incerta, e ne fa fonte inoppugnabile a sostegno di questa o quella posizione. Il dialogo sui social network è spesso ridotto a una contrapposizione cieca di screen shot o di link che rimandano a documenti dei quali si è a mala pena letto il titolo o dal quale si sono estratte (pezzi di) frasi che vengono strumentalmente utilizzate a sostegno del proprio ragionamento.

Non si studia, si cita il pezzo di testo o il grafico che ci permette di “aver ragione”. Si ignora la complessità dei problemi, dei contesti, delle condizioni al contorno, delle concause, della differenza tra ipotesi di lavoro e fatti, pur di aver un link o una frase o un diagramma che ”confermi in modo inoppugnabile la nostra posizione”. Si ignorano le caratteristiche e i limiti del metodo scientifico che si nutre dell’analisi critica e del confronto tra ipotesi contrastanti. Si immagina di poter saltare a piè pari anni di studio e di specializzazione grazie alla possibilità di selezionare al volo al frase o il motto che “ci dà ragione” e risponde al volo al nostro quesito o dubbio.

Qualche volta ho usato l’espressione “righellometria” per caratterizzare certe situazione che si osservano sui social network e che si collocano tra il ridicolo e il tragico: diagrammi relativi a complessi fenomeno economici o sociali vengono estesi tracciando linee a caso per sostenere questa o quella posizione, ignorando qualunque seria analisi statistica e economica. È il trionfo della “cultura del fai da te”, dell’illusione del ”saper ragionare“ a prescindere dalla reale conoscenza del contenuto sul quale si pretende o ci si illude di voler ragionare.

Questi fenomeni sono ulteriormente aggravati dal costituirsi di comunità sostanzialmente chiuse (“se non la pensi come me ti blocco”) dove certi approcci e convinzioni si autoalimentano in assenza di un vero e aperto contraddittorio e, anzi, in presenza di quella che i sociologici chiamano la logica di difesa del branco, che rassomiglia maggiormente al tifo da stadio che all’aperto confronto di idee. Drammaticamente, chi partecipa a queste dinamiche è convinto che l’avere a disposizione questi pezzi sparsi di “conoscenza”, confermati da tutti coloro con i quali ci si confronta (cioè ”tutti quelli che la pensano come me”), dia al proprio convincimento un radicamento e una forza che, al contrario, manca completamente. Non si usano dati e conoscenze per studiare un fenomeno: si utilizzano pezzi di testo e diagrammi per confortare e giustificare una posizione ideologica o, peggio, una credenza alla quale ci si sente attaccati. Si cercano pezze giustificative per ciò in cui si vuol credere. Esattamente l’opposto di quanto vorrebbero scienza e cultura. Esattamente l’opposto di quello che dovremmo e dobbiamo fare.

Ecco perché una moderna cittadinanza ai tempi del digitale richiede ancora più che in passato che si riscopra il senso più vero e profondo dello studiare.

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