#SeNonCiFosseIlMovimento: 3 cose che il M5S avrebbe dovuto sapere

Cosa succede quando, a quattro giorni da una tornata elettorale, un partito politico decide di lavorare sull’engagement del pubblico sui social?
In realtà, lo sappiamo tutti quello che succede: in genere finisce male. Nel corso degli anni sono stati tanti i brand che hanno tentato il giochetto e si sono ritrovati con un una crisi comunicativa da gestire laddove, nei piani originari, ci sarebbe dovuta essere solo gloria e tanta visibilità positiva. E no, il fatto di essere un partito politico invece che un marchio di qualche azienda famosa non fa nessuna differenza.

Lo sappiamo tutti, ma a quanto pare non lo sapeva il Movimento 5 Stelle, che il 22 maggio scorso ha pensato bene di uscirsene con un hashtag da mille e una notte: #SeNonCiFosseIlMovimento.

L’intenzione era quella di chiamare a raccolta sui social gli elettori delle Cinque Stelle, in modo da innescare una conversazione sui social in grado di dare visibilità al partito in vista delle imminenti elezioni europee e, già che ci siamo, raccogliere un po’ di allori compattando anche il proprio elettorato.
Questo in teoria. In pratica sappiamo che è finita così:

 


Il fallimento di #SeNonCiFosseIlMovimento non è una novità: e non tanto perché si tratta dell’ennesimo caso di hashjacking: incredibilmente, la campagna del Movimento5Stelle sembra essere stata creata prendendo il peggio da alcuni casi di social media fail piuttosto famosi – nonché particolarmente spettacolari – avvenuti negli ultimi anni. E va da sé che la somma di tanti elementi negativi può portare soltanto a un risultato pessimo. Nel dettaglio:

1. #SeNonCiFosseIlMovimento somiglia pericolosamente al #celochieditu del Partito Democratico. Stesso contesto – la campagna elettorale in vista delle Europee 2014 – stesse modalità in cui gli utenti hanno preso possesso della conversazione trasformandola in un boomerang contro il partito, stesso errore di fondo: pensare che sul web si possa isolare quella fetta di pubblico che sappiamo ci sosterrà e alla quale ci rivolgiamo in modo esplicito senza che tutti gli altri si infilino nel discorso. #SeNonCiFosseIlMovimento somiglia a #celochieditu anche per le modalità in cui si chiede di partecipare: attraverso delle immagini che l’utente può creare e pubblicare sui social con estrema facilità. Non c’è da sorprendersi se, in entrambi i casi, le campagne si siano trasformate nel “gioco del giorno” in cui tutti hanno potuto esprimere la propria vena creativa.

2. #SeNonCiFosseIlMovimento come Volkswagen. Ovvero: chiedi alla gente cosa pensa di te e la gente te lo sbatterà in faccia senza farsi troppi problemi. Qualche anno fa, all’indomani del giorno di Capodanno, Volkswagen ebbe la luminosa idea di scrivere un post su Facebook che diceva: “Cosa vorreste che facessimo per voi quest’anno?” Il thread nato da quel lancio rimase attivo per mesi, con migliaia di commenti degli utenti che chiedevano tutti le stesse cose: “preoccupatevi di più dell’ambiente, smettetela di minacciare la Terra, piantatela di fare lobbying contro le leggi sul clima”. Il tutto avveniva a pochi mesi da una campagna di Greenpeace contro la casa automobilistica tedesca, accusata di fare ostruzionismo nei confronti di alcune leggi comunitarie sulla regolamentazione delle emissioni di Co2. L’intelligenza collettiva in genere ha buona memoria per questo genere di cose, e l’errore in cui sono incappati Volkswagen prima e il Movimento5Stelle poi è stato proprio quello di non aver saputo cogliere che aria tirava attorno al proprio brand. (E se sei un partito per te tira sempre aria di tempesta: chiedere alla gente di esprimere un parere su un partito politico è una mossa kamikaze in tutti i luoghi e in tutti i laghi [cit.])

3. #SeNonCiFosseIlMovimento somiglia anche a #tutogliioincludolo spettacolare hashtag creato dalla Cgil nel 2014. Perché? Dopotutto l’hashtag del Movimento 5 Stelle è piuttosto leggibile e il suo intento è molto chiaro, a differenza dell’hashtag sindacale dell’autunno caldo di cinque anni fa. Eppure, il meccanismo fallato alla base delle due campagne è lo stesso: sia il M5S che la Cgil non hanno creato degli hashtag, ma degli slogan. Slogan che vengono riempiti a monte con il senso dei suoi creatori, senza lasciare un reale spazio di espressione al pubblico. È chiaro che un hashtag come #SeNonCiFosseIlMovimento è già connotato e diretto in una direzione specifica: a quel punto, è inevitabile che per una buona parte di pubblico l’unica mossa possibile diventi quella di “dirottare” l’hashtag e l’intera conversazione, non fosse altro che per puntiglio.

Insomma, se l’obiettivo era quello di generare una conversazione attorno al brand, il Movimento 5 Stelle ci è riuscito in pieno. Solo che, come è accaduto già tante volte, la campagna ha avuto risalto per il motivo sbagliato. Come sia possibile che nessuno si sia accorto del pericolo resta un mistero, o forse non lo è poi così tanto. A quanto pare è molto facile perdere di vista un dettaglio fondamentale: come si è percepiti dal pubblico – tutto, non soltanto i propri seguaci – in un preciso momento della vita del proprio brand.

Lesson Learned: Sul web non puoi permetterti di sopravvalutarti, né di pensare di essere “too big to fail”.

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