Di contrasti, urgenze, emergenze e solidarietà pelosa ai tempi del coronavirus

Su questa strada non c’è benedetta anima viva. sono scomparsi tutti tranne me e si sono portati via il mondo. Domanda: che differenza c’è fra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato?”

(Mc Carthy, La Strada)

di Stefano Epifani e Sonia Montegiove

In questi giorni di strade deserte e poche anime vive ma di abbondante, obbligato storytelling di smart working e didattica a distanza, cosa ne sarà delle tecnologie digitali evocate oggi, mai state in passato, e che probabilmente non saranno domani? Cosa ne sarà, nel dopo emergenza, dei tanti tentativi di e-learning nelle scuole e nelle università, e del lavoro più o meno agile nelle imprese e PA? E cosa ne è adesso, nel momento dell’urgenza di dover attivare tutto e subito, se non altro per dimostrare di essere pronti, digitali, smart, efficienti e ottimisti?

Forma e sostanza

La battaglia tra forma e sostanza è antica quanto il mondo e si palesa, oggi più che mai, con uno smart working che troppo spesso pare più la foglia di fico che nasconde un ben più prosaico telelavoro. Magari mascherato da lavoro agile, ma gestito in maniera tutt’altro che agile. Forma è, da caso reale di una PA, concedere di lavorare a distanza, vista l’emergenza, solo a persone in condizioni particolari di salute certificate – alla faccia della privacy – da un medico. Forma è, da caso reale in azienda, “siccome lo smart working non lo potranno svolgere tutti, non lo attiveremo per nessuno”. Forma è pensare di risolvere “al volo” – entro un improbabile 3 aprile – con gli strumenti che si hanno a disposizione in casa. Forma è pensare solo allo strumento e non al processo organizzativo. Sostanza vorrebbe un ripensamento della modalità di lavoro, che possa prendere in considerazione la possibilità di valutare una persona sulla base di quanto produce e non di quanto è presente in ufficio (ma su questo, tanto per fare un esempio non molto lontano nel tempo, fino a qualche mese fa si ragionava sulla possibilità di registrare la presenza dei dipendenti della PA tramite impronte digitali…). Sostanza prevedrebbe la messa a disposizione per i lavoratori di strumenti adatti a fare tutto ciò di cui si ha bisogno per lavorare, consentendo di farlo da qualunque posto possibile, non necessariamente in orari predeterminati. Sostanza vorrebbe il ripensamento dell’organizzazione del lavoro e forme di controllo attuate dagli apicali su quanto e come si è prodotto. Tutto il resto è forma, o fuffa, appunto.

E quindi? Quindi cerchiamo di concentrarci sulla sostanza delle cose. Passando da un approccio orientato a far rispettare la norma (o il patto di sindacato, o la procedura di qualità di turno) ad un approccio realmente finalizzato – anche in questa emergenza – a perseguire gli obiettivi di lavoro rispettando il work life balance in una situazione di grande stress per le famiglie.

Efficienza ed efficientismo

Cugina della contrapposizione tra forma e sostanza, ma per certi versi ancor più infida, è la contrapposizione tra efficienza ed efficientismo. In questi giorni di corsa folle verso la remotizzazione di tutto il remotizzabile siamo tutti malati di efficientismo. L’obiettivo pare drammaticamente non essere tanto quello di risolvere il problema, quanto quello di mostrare che si sta facendo qualcosa. Insomma: dobbiamo agitarci anche se non andiamo da nessuna parte. Ed ecco che, pensando alla didattica a distanza – sia essa quella delle scuole o quella delle università – c’è la gara a chi sta facendo di più (sul fare meglio, meglio soprassedere). Ed ecco che, da caso reale di una scuola, “per attivare forme di didattica a distanza, gli insegnanti provvederanno a caricare i materiali sul registro elettronico della scuola”. Ecco – ancora – la riscossa del gruppo Whatsapp delle maestre, che senza alcun raccordo con la scuola propongono videoconferenze lunghe mezza mattinata, incuranti dei segnali di scompenso degli alunni che, dopo un po’, iniziano ad avere visioni di Fortnite. E quelle dei genitori, che mentre telelavorano devono anche seguire i figli (ma quante postazioni dobbiamo predisporre contemporaneamente in casa?).

Ecco che gli studenti universitari sono incastrati in improbabili webinar fatti da docenti che fino a ieri erano abituati ai lucidi (che le slide ancora non sono patrimonio condiviso). Webinar che si protraggono inutilmente per ore e ore. Il tutto non perché sia meglio così, ma perché “si deve rendicontare la didattica”. Ecco che anche i docenti più vicini a questi temi sono obbligati a utilizzare piattaforme del tutto improprie ed inadatte (una videoconferenza è una cosa ben diversa da un webinar) unicamente perché “la procedura vuole così”. Incuranti del fatto che chissenefrega delle procedure, e che stiamo sprecando un’opportunità di sperimentazione mai vista.

Forma è, per una scuola o una università, uscire con un comunicato stampa ricco di particolari su quanto siamo bravi a fare la didattica digitale per quattro messe cantate in video, che poco somigliano al coinvolgimento necessario nella didattica a distanza. Forma è buttare all’aria decenni di letteratura su come si fa blended learning per ore e ore di “videolezioni” che non devono raggiungere il risultato di ottimizzare il livello di efficienza/efficacia, ma “durare” il tempo necessario a rendicontare i giusti crediti.

E quindi? E quindi cerchiamo di guardare, per una volta, all’efficienza piuttosto che all’efficientismo. All’essere piuttosto che all’apparire. Perché questa partita non durerà poco, e può essere un’ottima occasione per cambiare davvero in positivo alcuni nostri comportamenti. Ma per farlo non possiamo, come sta accadendo in questi giorni, buttare all’aria decenni di letteratura scientifica perché siamo vittime e schiavi del dover “far vedere” e di procedure amministrative che, in una fase come questa, sono totalmente prive di senso.

Processi e strumenti

Così come l’apparire vince sull’essere, stiamo vedendo il predominio dello strumento sul processo. Nel caso dello smart working, come in quello della didattica a distanza, ciò che conta non è il software, il servizio on line, l’iPad o non iPad, la piattaforma. A contare sono il processo che c’è dietro ed il risultato che si vuole raggiungere. Ma, se per esempio si parla di didattica, nell’unica pagina di supporto del MIUR per la didattica a distanza (scoperta ieri?), vengono subito suggerite un paio di piattaforme, Gsuite e Office365, entrambe proprietarie – e non certo le uniche possibili – in un panorama indubbiamente più vasto, costellato anche di tanti altri possibili strumenti e progetti, “liberi” o meno. “Meglio di niente…”, dirà subito qualcuno. E invece, a volte, così come per le indicazioni stradali, quando non si è in grado di dare indicazioni che possano aiutare tutti in modo concreto è preferibile tacere. Come in ogni azione di trasformazione digitale, lo strumento (o la tecnologia digitale da applicare) è l’ultimo dei problemi. Si deve partire da altro, ovvero dal senso che si vuole conferire a ciò che si sta facendo, dal quale spesso deriva una vera e propria rivoluzione del modo in cui una cosa si fa. Se non si ripensa il processo, non si può pensare allo strumento, perché niente aiuterà a dare un senso a quello che si fa, se quello che si fa – come diceva la canzone – “un senso non ce l’ha”.

E quindi? Quindi partiamo dal senso che vogliamo dare alle cose. Partiamo dall’obiettivo. Partiamo dal risultato che si vuole perseguire. E soltanto dopo pensiamo agli strumenti utili per perseguirlo. Altrimenti il rischio concreto sarà quello di non risolvere i nostri problemi, ma quelli che pensa lo siano il fornitore di turno.

Marketing e solidarietà

Fioccano in questi giorni, fortunatamente, i gesti di solidarietà. A volte autentica, espressione di un senso di comunità e di attenzione al bene comune che è vero patrimonio da conservare e soprattutto difendere rispetto al dilagare di altre forme di finta solidarietà, buonista e pelosa. Quella, ad esempio, per la quale grandi multinazionali mettono a disposizione gratuitamente, in particolare alle scuole, servizi o piattaforme proprietarie, consulenze e webinar di presentazione, help desk sempre pronti, attivi, attrezzati. Servizi che hanno un costo (magari mascherato da scambio di dati e informazioni che arriveranno tramite le piattaforme, ndr) e che presentano spesso un lock-in, ossia una dipendenza dal fornitore che, passata la fase di emergenza, porterà i suoi frutti. Ma non al cliente. Non è solidarietà ma marketing. Marketing attento, efficace, di quello che arriva nel momento giusto, al posto giusto, alla persona giusta, ovvero a scuole chiuse, a qualche dirigente scolastico nel panico per non sapere quali pesci prendere nella “urgente” necessità di trovare forme di contatto con i ragazzi in scuole che il digitale lo hanno visto soltanto scritto sul PNSD, senza averlo mai praticato. Marketing legittimo, intendiamoci, ma da non confondere con la solidarietà. Non è solidarietà., quella di chi per partecipare ad un webinar presenta una form di registrazione di tre pagine nelle quali chiede anche il nome del prozio, ma lead generation, ossia la generazione di contatti commerciali che – passata l’emergenza – diventeranno una vera e propria prateria sconfinata da sfruttare.

E quindi? E quindi va bene essere oggetto di un’azione di marketing più o meno spregiudicata. Ma che le Istituzioni di riferimento – vedi il MIUR tanto per fare un esempio – dicano esplicitamente che si tratta di questo. Che si tratta del risultato di anni ed anni di disinteresse verso un tema per il quale oggi serve l’intervento della cavalleria delle multinazionali. E soprattutto, per chi oggi ha la responsabilità di scegliere soluzioni: che lo faccia compromettendo il meno possibile la libertà delle scelte che dovrà fare domani (si veda alla voce lock-in).

In un momento di grande difficoltà, leva ideale per agire il cambiamento, potremmo prenderci del tempo per riflettere e pianificare, anche nel medio e lungo periodo. Potremmo cogliere l’occasione per analizzare, ridare un senso e creare valore. E magari usare l’ottimismo per ricostruire un modo di lavorare e fare scuola più sostenibile e migliore.

Si era preparato a morire e ora che non sarebbe più morto ci doveva riflettere su”

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