Non solo braccia: più competenze per le nuove agricolture

In relazione alle prospettive dell’agrifood, negli ultimi tempi non si è fatto altro che scrivere delle magnifiche sorti progressive della precision farming, dell’agricoltura digitale e dell’introduzione dell‘IoT lungo tutta la filiera. Dell’eccellenza e superiorità delle produzioni alimentari made in Italy se ne parla da sempre come l’arma più potente dell’export tricolore. Con l’arrivo della pandemia Covid-19, da ultimo, si è arrivati a veder inserito il comparto agroalimentare tra gli asset strategici di interesse nazionale, al pari dei settori dell’energia, delle comunicazioni e della difesa. Poi però, “grazie” alla stessa emergenza sanitaria, all’opinione pubblica viene propinata la tesi che l’unico, vero, grande problema dell’agricoltura è quello del reperimento della manodopera, forse sarebbe meglio dire della bassa manovalanza, quindi prioritariamente straniera, ovvero (ma questo non viene esplicitato) con retribuzioni, garanzie e diritti più agevolmente comprimibili.

E tutte le parole spese sulle nuove competenze, sulla specializzazione, sull’innovazione dove sono finite? Si direbbe che hanno fatto la stessa fine delle improvvide e irrealistiche narrazioni giornalistiche che, per anni, ci hanno raccontato romanticamente l’agricoltura come un bucolico eden che attirava addirittura frotte di professionialità estranee – medici, avvocati, notai, insegnanti – tanto in campagna tutto scorre da solo, con il sole e con la pioggia, senza necessità di preparazione, di tecnica, di programmazione e organizzazione, di specifiche capacità imprenditoriali.

La crisi, insomma, invece che costituire uno stimolo per accellerare l’ammodernamento del settore primario e per ridisegnare i modelli e i processi di produzione, trasformazione e commercializzazione sta facendo implodere le contraddizioni interne al sistema, accentuando criticità irrisolte e rispetto alle quali la politica preferisce le facili scorciatoie: da una parte magari la regolarizzazione di massa (che attiene ad altri ambìti di discussione), dall’altra l’impiego forzoso dei percettori del reddito di cittadinanza. In fondo, in entrambi i casi, si tratta di “braccia rubate all’agricoltura” che vedono l’agricoltura ancora come quella della zappa e della vanga. Di tecnologie, di sostenibilità ambientale, di strategie orientate agli obiettivi dell’Agenda 2030 se ne riparlerà più avanti, come si fa con le mode, che fanno giri larghi e poi ritornano.

Lasciamo da parte per un momento le situazioni estreme – caporalato, sfruttamento, lavoro nero – che pure ci sono e vanno perseguite con ogni mezzo, e atteniamoci al tema: molte imprese del settore hanno necessità di personale stagionale per svolgere le loro attività stagionali (ripetizione voluta), ma non sono nelle condizioni oggettive di pagarlo come dovrebbero e come vorrebbero. Un tema che, per comodo o per ignoranza, viene eluso. “L’agricoltura – conferma Stefano Berti, direttore della Confederazione italiana agricoltori di Pisaha bisogno di strumenti flessibili per l’assunzione di manodopera. I centri per l’impiego, nella gran parte dei casi, non sono funzionali a queste esigenze. Togliamo dal tavolo della discussione i voucher, ma certi strumenti, aggiustati, emendati, normati, per impedirne l’abuso o l’uso improprio, sono anche a garanzia di certa offerta di manodopera e di una effettiva multifunzionalità che includa gli aspetti sociali, ambientali, culturali e turistici dell’agricoltura“.

L’agricoltura non ha bisogno solo di generica manodopera“, sottolinea Enrico Bonari, professore emerito della Scuola di Sant’Anna di Pisa. “Le nuove agricolture  hanno necessità di personale qualificato, preparato, specializzato. C’è bisogno, anche nei campi, di competenze tecniche, agronomiche, di comunicazione. E le scuole e le Università quasi mai riescono da sole, con gli strumenti che hanno a disposizione, ad assicurare il giusto equilibrio tra teoria e prassi. Su questo fronte un’alleanza strutturata con il sistema produttivo potrebbe dare origine ad un enorme valore aggiunto, con innegabili vantaggi reciproci e di ampio respiro“.

L’invito è quello di uscire dalla contingenza, dalle emergenze piccole e grandi che si susseguono di continuo e che portano a ragionare sul “qui e ora”, che spesso si avvitano su questioni ideologiche, come sta accadendo anche in questi giorni. Una strada la indicano all’unisono il professor Rossano Pazzagli, docente di storia del territorio e dell’ambiente dell’Università del Molise, ed il professor Gianluca Brunori, docente di economia agraria all’ateneo di Pisa. “Negli ultimi anni c’è stata una riscoperta degli indirizzi agrari, sia nell’istruzione superiore che nelle Università. Ci sono e ci saranno centinaia di periti agrari, agrotecnici e agronomi che potrebbero mettere a disposizione delle imprese le loro competenze. Competenze fondamentali a riscrivere i concetti dell’agricoltura italiana in funzione della sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Giovani professionisti che però, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi sul campo con le realtà imprenditoriali. Ne hanno bisogno se vogliono davvero diventare dei bravi consulenti o dei bravi imprenditori. Dall’incontro pilotato di queste due esigenze potrebbero venire fuori subito 2.000-3.000-5.000 posti di lavoro in grado di fare la differenza per la ripartenza e la qualificazione del settore e per una sua riconversione in termini ecologici. Lo Stato dovrebbe sostenere le aziende che si impegnano ad assumere questi giovani sulla base di un progetto”.

I buoni propositi, la buona volontà, non bastano. L’aggiornamento dei percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, con l’inserimento della valorizzazione del raccordo con le aziende, non è sufficiente. La proposta arriva dal pragmatismo di chi alla laurea in scienze e tecnologie per l’ambiente agroforestale ha unito l’attività imprenditoriale nel settore olivicolo e l’impegno come presidente della CIA Pisa. “Diplomati e laureati in agraria – propone Francesco Elterpotrebbero essere assunti dalle imprese previa presentazione di un progetto aziendale che qualifichi e certifichi l’incontro di fabbisogni. L’assunzione dovrebbe essere agevolata: potrebbe essere per un periodo temporale di due anni con minimo sei mesi di attività per ogni anno. La retribuzione netta che andrebbe a questi dipendenti dovrebbe essere quella prevista contrattualmente, con lo Stato che potrebbe accollarsi la parte previdenziale o un contributo iniziale una tantum“.

Gli fa eco Francesca Cupelli, di Terre dell’Etruria, una delle principali realtà cooperative italiane, con circa 3.500 aziende agricole associate: “Il sistema cooperativo potrebbe dare un imput fondamentale sul fronte dell’inserimento di personale qualificato, da formare ulteriormente sul campo, proprio grazie alla sua strutturazione e alla mission che è insita nella natura sociale. Si potrebbe partire da qui, sarebbe un bel segnale“.

Le nuove agricolture, plurale, potrebbero ripartire anche da qui. Emergenza Covid-19 a parte.

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