Di Recovery Fund, metodo, merito e della mancanza di strategie

C’è un elenco che circola in rete. Un tabellone con 24 pagine fitte di titoli, importi e brevi descrizioni, talvolta criptiche, talvolta disarmanti, talaltra persino interessanti. Un listone che malgrado non sia ufficiale, non sia pubblico, non sia definitivo, “come ogni notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall’alto scocca, vola veloce di bocca in bocca”.

Anche se questa volta sarebbe stato più corretto dire di gruppo WhatsApp in gruppo WhatsApp. Ad ogni modo, quale che sia il canale di diffusione, il risultato è che l’elenco dei progetti che si pensa di finanziare con il Recovery Fund è ormai ben noto ai più. Un elenco che supera di tre volte il totale del finanziamento disponibile e che, è evidente, non è altro che un documento in bozza: qualcosa che dovrà essere profondamente rivisto. Perché, quindi, preoccuparsi di una bozza?

Per almeno due buoni motivi: uno di metodo ed uno di merito…

Partiamo dal merito

Nel merito nel documento si trova di tutto: progetti interessanti e progetti totalmente campati in aria. Certo, ci sono anche progetti che possono rispondere alle indicazioni da più parti fornite, a livello europeo, di puntare su digitale e su sostenibilità. O, per meglio dire, al digitale come strumento per perseguire obiettivi di sostenibilità sociale, economica ed ambientale. Insomma, quel (new) Green Deal che dovrebbe rappresentare la vera strada per uscire dalla crisi che stiamo attraversando.

  • Ed ecco quindi che – in termini di sostenibilità sociale – non si può non essere d’accordo con il primo progetto della lista, “Education for all”, che si propone di diffondere nei prossimi quattro anni la connettività satellitare nelle zone più disagiate ed investire per tradurre in braille i contenuti didattici. Certo, qualcuno potrebbe far notare che se dobbiamo investire in connettività satellitare da qui a quattro anni i temi della banda larga e del 5g saranno tutt’altro che risolti. E che la legge sull’accessibilità è del 2004 e quindi i contenuti didattici dovrebbero essere accessibili a tutti gli studenti by default. Ma l’SDG4 di Agenda2030 è importante, quindi meglio insistere e stare tranquilli.
  • Così come, in termini di sostenibilità ambientale, i sostenitori dell’energia pulita non potranno che rallegrarsi per l’incentivo proposto per il ricorso al fotovoltaico per produrre energia auto-consumata in loco. Certo, in un piano di investimenti come quello del Recovery Fund ci si aspetterebbe investimenti che oltre a supportare comportamenti responsabili aggancino tali comportamenti a processi di crescita economica che consentano di amplificare poi l’effetto di tali comportamenti, ma di questo si potrà parlare dopo.
  • E ancora: non mancano i progetti interessanti in tema di sostenibilità economica. Si parla di dottorati industriali, di specializzazioni intelligenti, di un fondo per le industrie creative, di punti per l’innovazione da aprire nelle città italiane al servizio delle PMI (anche se poi ci sarebbe da capire che fine farebbero la rete dei PID e dei Digital Innovation Hub).

Insomma: un libro dei sogni pieno di idee dove non mancano le idee interessanti, ma nel quale qualche sogno rischia di trasformarsi in incubo.

Ecco quindi spuntare una serie di progetti del Ministero della Difesa che, tra le altre cose, pensa di usare il Recovery Fund per adeguare le sue reti di comunicazione proprietarie (cosa in sé sacrosanta, ci mancherebbe). E che per farlo conta di installare una “costellazione di satelliti a bassa latenza per garantire capacità 5g a banda larga al territorio italiano, europeo e globale”. Insomma: ci lanciamo nell’orbita dei LEO. E – sempre con il Recovery Fund – vuole farsi finanziare per 350 milioni di euro un progetto per sviluppare scenari in realtà virtuale per le simulazioni di guerra. Così, specificano, potranno ridurre l’impatto ambientale delle esercitazioni. No, non è uno scherzo: forse è la volta che smetteremo di cannoneggiare la costa del Sulcis.

E che dire del credito d’imposta per la produttività sostenibile? L’idea è quella di “destinare una parte dell’extra gettito fiscale (IRES e IRAP) derivante dall’incremento di valore aggiunto, direttamente a favore dei nuovi investimenti dell’impresa e dei lavoratori dipendenti della stessa”. Un mistero come si calcoli cosa, e cosa ci si faccia. Però cuba cinque miliardi in sei anni. E poi una lista di datecenter da rifare (ma non andavano unificati?), di sistemi di disaster recovery da implementare (quindi ora siamo senza? Buono a sapersi), e di piccole e grandi spese che pensano o sperano di risolvere piccoli e grandi problemi delle tante amministrazioni italiane, troppo spesso in cerca di fondi per mettere pezze qua e là.

Ma guardiamo al metodo

L’inquietante documentone, seppure non definitivo, la dice lunga sul modo in cui si sta gestendo la cruciale partita del Recovery Fund. Il metodo con il quale si è arrivati al risultato che viaggia di gruppo WhatsApp in gruppo WhatsApp è abbastanza chiaro: ogni amministrazione ha elencato quelli che ritiene siano i suoi progetti prioritari, che hanno dato luogo ad un elenco che verrà scremato ed al quale si cercherà di dare una qualche coerenza, partendo dal fatto che le indicazioni fornite saranno state, a giudicare dai risultati, qualcosa di simile a “scrivete quello che vi serve, ma ricordatevi di indicare da qualche parte i termini digitale e sostenibilità”.

Insomma, a voler esser buoni il lungo elenco che tutti hanno letto ricorda tanto uno di quei documenti preliminari che si facevano nell’epoca nella quale la strategia digitale delle organizzazioni non era altro che un’analisi dei requisiti percepiti dai diversi settori in termini di necessità di implementazioni tecnologiche. Con almeno due difetti:

  • non sempre l’utente ha contezza di come il digitale potrebbe cambiare il processo che gestisce;
  • quasi mai ha la visione d’insieme necessaria per comprendere come ciò potrebbe ridefinire il senso dell’organizzazione nel suo complesso.

Per questo motivo si è passati dai Responsabili dei Sistemi Informativi di vent’anni fa ai CIO di oggi: per supportare un cambiamento che non riguarda solo il modo in cui si fanno le cose, ma il perché abbia senso farle. Ma questa è un’altra storia che guarderebbe alla necessità di identificare un vero e proprio “CIO” per il Paese: storia lunga, appunto, e complessa da affrontare qui.

A voler essere buoni, dicevamo. Perché a non volerlo essere, o ad essere semplicemente realistici, quello che si evince dal documentone è che stiamo sprecando l’opportunità del Recovery Fund disperdendo i soldi che arriveranno in mille rivoli più o meno utili, con progetti che andranno a tappare buchi e risolvere problemi che talvolta nulla hanno a che fare con il motivo per il quale il finanziamento è stato erogato. Ed il dubbio sul fatto che ciò non venga fatto nemmeno per cattiva fede, ma per semplice incapacità, non migliora la situazione.

Il tutto, e questo è il problema principale, senza la minima visione strategica e senza che emerga – dalla lettura trasversale dei progetti – neanche quella che sarebbe dovuta essere la ratio alla base di una strategia. Di qualsiasi strategia, buona o cattiva che sia.

Si può essere d’accordo o meno con i tedeschi che focalizzeranno gli investimenti per potenziare il sistema della sanità, così come si può esserlo con i francesi che puntano sull’industria e sulla transizione sostenibile, ma almeno questi Paesi esprimono approcci chiari che si traducono in un numero concentrato (o almeno coerente) di iniziative che sono focalizzate per il raggiungimento di un obiettivo.

Il problema quindi non è tanto – o solo – di merito, ma di metodo.

  • Qual è l’obiettivo del nostro Paese?
  • Qual è il ruolo che si intende dare alla tecnologia digitale per perseguirlo?
  • In che modo la sostenibilità messa al centro dal Green Deal è uno strumento ed una chiave per raggiungere – grazie alla tecnologia – tale obiettivo?

Nessuna di queste domande trova risposta nel listone. Né la trova nelle generiche dichiarazioni della nostra politica. Il Recovery Fund rappresenta un’opportunità di guardare al futuro dell’Italia definendo obiettivi e disponendo (di parte) delle risorse per perseguirli. Non è un fondo destinato a mettere pezze qua e là: è un fondo finalizzato a riattivare – attraverso la tecnologia – un percorso di sviluppo sostenibile che consenta agli Stati europei di sollevarsi dalla crisi nella quale versano. Ma per farlo servono visione strategica, serve una profonda comprensione delle dinamiche del mondo nel quale ci stiamo muovendo, è necessaria consapevolezza della direzione che si intende prendere e capacità di non disperdere gli investimenti in mille rivoli.

Nulla di tutto ciò appare in ciò che è circolato e che sta circolando.

La speranza è che tutto ciò che è circolato non sia corrispondente a ciò che si sta facendo o che si ha intenzione di fare. La speranza è di trovarsi improvvisamente ed in maniera inaspettata stupiti, di fronte ad una politica che smetta di usare strategie di distrazione di massa come i banchi a rotelle per non guardare ai problemi che ci aspettano. La speranza è che il listone non sia che un errore di metodo, resisi conto del quale i nostri governanti si decidano a smettere di chiedere alle proprie amministrazioni cosa fare con il digitale come se si dovesse cambiare stampante, e comincino ad avere una visione del Paese che vogliono, partendo da questa per capire come costruirla grazie alla tecnologia.

Ma chi visse sperando…

 

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