#digitalchampions: quando il diavolo si annida nei dettagli

Credo che nessun organo di informazione, in Italia, si sia occupato del tema della Digital Championship in maniera più estensiva ed approfondita di Tech Economy, che all’argomento ha dedicato uno spazio fisso per oltre due anni. Abbiamo intervistato i Digital Champion stranieri, abbiamo analizzato le best practice, abbiamo identificato i punti deboli di un modello che ha qualche luce e più di qualche ombra. Era più che ovvio, quindi, che più di qualcuno ci scrivesse per sapere perchè non avessimo commentato “a caldo” la nomina di Riccardo Luna a Digital Champion. Il perchè è presto detto: è un tema a cui tengo molto e, in un Paese di allenatori della nazionale, sono abituato a cercare di capire quello che succede prima di parlarne. Questo, di solito, mi aiuta ad evitare di parlare troppo a vanvera, e se mi costa qualche retweet poco importa. Oggi però i primi passi sono stati compiuti, e qualcosa si può dire.

Digital championRiccardo Luna: il primo digital champion che sa di esserlo
In primo luogo due parole sulla scelta del Digital Champion: Riccardo Luna. Basta dire che rispetto ai predecessori Riccardo Luna è – quantomeno – il primo Digital Champion che sa realmente di esserlo, e sviluppa un’azione verticale finalizzata al compimento di questo importante compito istituzionale. Lo fa con il suo stile: il che ovviamente conferisce una impostazione peculiare alle attività, condivisibile o meno che sia. E va detto che rispetto ad alcuni nomi che erano circolati in fase di nomina non si può che essere contenti che l’abbia spuntata. Quindi in bocca al lupo Riccardo. E buon lavoro.

Due parole sulla strategia
Ora però altre due parole sulla strategia. Non posso che essere felice che la strategia di Riccardo Luna, ad oggi, riprenda diversi dei passaggi di un mio documento operativo diffuso molti mesi fa, che condivisi con lui. Ad esempio la logica a rete propria dell’approccio hub & spoke (in sostanza, l’idea della rete dei digital champion) e l’accordo con la Rai (al quale però la definizione di Manzi 2.0 non rende giustizia e rischia di essere fuorviante).

La rete dei Digital Champion(s)
Ma è sulla questione della rete dei digital champion che voglio soffermarmi.
Il progetto di Riccardo, in sostanza, prevede la creazione di un’associazione verso la quale afferisce una rete di Digital Champion (no, non “digital champions”: in italiano il plurale non si declina, per cortesia!). Uno per Comune. Si è partiti con i primi 100 campioni digitali nominati in pompa magna alla presenza del Presidente del Consiglio. Una nomina (anzi, meglio, un’investitura) che da una parte ha dato risalto e prestigio al ruolo, dall’altra ha dato grande visibilità in rete al progetto, essendo stati (non a caso) scelti i primi 100 “mini digital champion” tra gli influencer con più seguito in rete. Cosa dovranno fare i mini digital champion? Presto detto, ce lo racconta il sito dell’associazione: “1) dovranno essere una sorta di help desk per gli amministratori pubblici sui temi del digitale 2) dovranno muoversi come difensori del cittadino in caso di assenza di banda larga, wifi ed altri diritti negati 3) dovranno promuovere, anche con il ricorso al crowdfunding, progetti di alfabetizzazione digitale, dai bambini ai nonni”.

Tutti dentro!
Per ora, insomma, una bella iniziativa. Se non fosse che – come hanno fatto notare in rete più voci – non si capisce quale sia stata la ratio relativa alla scelta dei primi 100 campioncini digitali (dei quali in alcuni casi se la fama è certa non altrettanto si può dire della competenza). Tuttavia non è questo il punto saliente del problema. La scelta dei primi 100 non impedisce ad altri di candidarsi, ma ha assicurato all’iniziativa un consenso pressoché unanime, stante che gli influencer principali sono stati tutti (o quasi) inseriti nel sistema, annichilendo così le critiche (al netto di quelli che, rimasti fuori, hanno criticato chi era dentro).

I limiti dell’approccio
I veri problemi non sorgono da chi è stato messo dentro nella prima tornata e da chi è stato lasciato fuori (anche se le “primarie” per il digital champion in alcuni grossi Comuni italiani sono state caratterizzate da momenti epici).
Vengono invece da altri fattori:
  • (potenziale) conflitto di interesse: molti dei mini digital champion sono consulenti, formatori, speaker. Come gestiranno la loro attività (gratuita) di Digital Champion in concomitanza con la loro attività (giustamente retribuita) di professionisti? Come bilanceranno i due ruoli e come vestiranno i due cappelli? Quanto la “carica” di Digital Champion verrà fatta pesare – ad esempio – nei rapporti con le Pubbliche Amministrazioni nella gestione di commesse collegate (o non collegate) all’associazione? Non esiste, ad oggi, un sistema di regole stabilite, ma sarà importante crearlo. E sarà utile farlo prima che emergano le situazioni potenzialmente “sgradevoli” che in alcuni contesti già si stanno creando, generate dalla commistione tra una carica pubblica assegnata ad un individuo, una associazione tra privati ed un piccolo esercito di professionisti che, curiosamente, in molti casi svolgono professionalmente il ruolo che dovrebbero ricoprire come volontari.
  • modulo organizzativo: in cooperazione allo sviluppo il modello cui si ispira il sistema dei digital champions si chiama hub & spoke, e si basa su un forte coordinamento tra centro (il digital champion) e periferia (i singoli campioncini digitali). L’approccio “wikicratico” probabilmente favorisce la creatività, ma sicuramente non favorisce efficienza ed efficacia dell’azione di sistema. Ed in un contesto in cui gli oltre 8000 mini digital champion dell’esercito di Riccardo dovranno muoversi sul territorio per promuovere lo sviluppo digitale il chaos non è una prospettiva probabile, ma la certezza.
  • competenze effettive: a quale titolo e con quali competenze alcuni dei mini digital champion possano supportare le amministrazioni dei loro comuni (o le aziende del loro territorio) nel processo di digitalizzazione è un vero e proprio mistero (doloroso?). La scelta dei campioncini digitali sembra avvalorare la nefasta ipotesi per la quale gli “smanettoni” siano automaticamente abilitati – in quanto tali – a fornire buoni consigli ad amministratori pubblici e privati, ad aziende, cittadini, pubbliche amministrazioni. Insomma: la confusione tra divulgazione, “evangelizzazione”, attività di reingegnerizzazione deiprocessi, progettualità e consulenza è alla massima potenza. Ed in un contesto generale in cui regna l’approssimazione al potere (che è peggio della fantasia di sessantottiana memoria) questa è una tendenza nefasta. Non bastano entusiasmo e buona volontà per ripensare processi, ottimizzare sistemi, promuovere sviluppo. Servono competenze specifiche, capacità, esperienza. E se pure in molti casi questi elementi sono indiscutibilmente presenti nei mini digital champion, in molti altri è evidente che non lo sono. L’innovazione è una cosa seria e non basta raccontarla con entusiasmo, che fare disastri è sin troppo facile.
…e come sarebbe stato possibile superarli
championsNella proposta diffusa mesi fa, nella quale proponevo la costituzione di una “rete di digital champion”, non immaginavo una rete di blogger (?!?) prestati al volontariato. Immaginavo invece una rete di professionisti identificati ognuno nel suo ambito di competenza che, vicini al digitale, potessero essere “campioni” del digitale rispetto alle loro rispettive attività. Avvocati per supportare gli avvocati, pensionati per i pensionati, albergatori per gli albergatori, medici per i medici, maestri per i maestri, amministratori pubblici per gli amministratori pubblici. Ogni ambito ha giù i suoi “campioni digitali”. Spesso non sono noti in rete (e quindi avrebbero dato meno visibilità all’iniziativa nella ristretta cerchia degli influencer di settore) ma sono spesso noti e riconosciuti (e quindi autorevoli) nelle loro categorie professionali. Ne parlano la lingua. Ne conoscono, comprendono e governano i problemi. I migliori ed i più esperti nelle specifiche professioni (e negli specifici mestieri) al servizio dei propri pari. Al posto della declinazione territoriale (o meglio a sistema con la declinazione territoriale) una rete del genere sarebbe stata in grado di risolvere tutti e tre i punti precedentemente elencati:
  • il conflitto di interessi sarebbe venuto meno in quanto si sarebbe sviluppato un modello di peering non competitivo ma basato sul supporto alla categoria;
  • il modulo organizzativo sarebbe stato sviluppato per cluster, creando dei tavoli di lavoro verticali per settore (coinvolgendo associazioni di categoria, strutture datoriali, ordini professionali) in grado di organizzare le iniziative e promuoverne la diffusione nei rispettivi ambiti di competenza;
  • il tema delle competenze non avrebbe avuto ragion d’essere, essendo i protagonisti chiamati in causa esperti nei loro settori e “promotori” dello sviluppo e dell’innovazione.

Certo, una rete del genere sarebbe stata più complessa da costruire e forse meno “scenografica” da comunicare (d’altro canto la valanga di selfie della proclamazione-investitura rimarrà nella storia). Ma supportare lo sviluppo della cultura digitale nel nostro Paese, forse, avrebbe meritato lo sforzo.

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