“Non c’è pace”: la crisi del movimento pacifista vista da Roberto Vicaretti e Romina Perni

Quando si pronuncia il termine pace, la mente corre subito a scenari di guerra per portarci a pensare che pace sia solo sinonimo di “assenza di conflitti”. La pace, però, non è solo nel goal 16 di Agenda 2030, ma è una condizione di “benessere” per tutti che si costruisce attraverso il raggiungimento di tutti gli SDGs.

Costruire pace, pertanto, richiede impegno, partecipazione, sforzo collettivo. Roberto Vicaretti, giornalista Rai e Romina Perni, ricercatrice dell’Università degli Studi di Perugia, nel loro libro “Non c’è pace” non solo ricostruiscono la storia dei movimenti pacifisti, ma mettono in evidenza la crisi che questi stanno vivendo, descritta come “un’assenza che non fa nemmeno notizia e non interroga la politica“.

Ma qual è stato il ruolo di strumenti di comunicazione nuovi, come i social network, in questa involuzione? E come potremmo usarli al meglio per raggiungere quell’obiettivo 16 di Agenda 2030 che porta la parola “pace” ma sembra così utopico?

Credo, in primo luogo – risponde Roberto Vicaretti – che si debba evitare di un’illusione ottica: la forza in rete e sui social network di posizioni, suggestioni e toni profondamente diversi da quelli del movimento pacifista non deve spingerci a pensare che la mobilitazione arcobaleno non sia presente o non sappia vivere in quella dimensione. Il movimento risulta, però, schiacciato da dinamiche e parole d’ordine diverse. È un destino ineluttabile? I social media sono inevitabilmente il lievito di forze populiste e, più in generale, distanti dal mondo pacifista? Ovviamente no. Con una buona dose di realismo andrebbe riconosciuto che i social media sono strumenti e, in quanto tali, né buoni né malvagi. E, con la stessa dose di realismo andrebbe riconosciuto che, come ci ha detto il professor Panarari, la politica digitale spinge verso la tribalizzazione e l’unanimismo; due concetti molto distanti dalle parole d’ordine del movimento per la pace che ha nel dialogo, nel confronto e nell’incontro con l’altro diverso da sé i propri architravi. Ma si può andare in controtendenza. Le ragazze e i ragazzi dei Fridays for future ce lo hanno dimostrato. Al movimento per la pace serve un messaggio forte, un linguaggio nuovo e uno stile adatto ai tempi per tornare ad essere protagonista e per sfruttare al meglio la novità che i social media hanno introdotto: annullare il divario tecnologico e comunicativo tra insider e outsider del discorso pubblico. La rete offre gli strumenti, serve il coraggio e la sfrontatezza giusti per utilizzarli.

A un certo punto, nel libro, si legge che la democrazia non è solo stare insieme, ma vedersi e parlarsi e anche “strattonarsi”, e che pertanto non basta stare in Rete. Come è cambiato anche il concetto di democrazia con il digitale? Qual è stato il ruolo di piattaforme come Rousseau che alcuni associano fortemente a democrazia partecipativa?

Nel nostro libro – continua Romina Perni – questo aspetto è stato inquadrato nel tema più generale della crisi della partecipazione democratica, che abbiamo individuato come una delle ragioni del ridimensionamento e della metamorfosi che ha vissuto e sta ancora vivendo il movimento pacifista. Siamo partiti da una mancanza, che è quello di incontrarsi e stare vicini – tanti, tutti insieme – in nome di un ideale, che spesso viene sostituita da forme di indignazione che hanno come massimo investimento il “mi piace” a una pagina di protesta nei confronti di qualcosa. In realtà, su certi temi come quello della pace, vi è oggi una scarsa capacità di incidere sia fisicamente (nel senso corporeo del termine) sia virtualmente. Certo è che il movimento degli anni Duemila, che è quello di cui ci siamo occupati noi, ha vissuto forme di partecipazione in cui lo stare fianco a fianco era la forza vitale, anche se la rete veniva usata come strumento per moltiplicare contatti e esperienze (si veda l’esperienza di Peacelink). Il discorso più generale relativo alla democrazia digitale non può essere certamente esaurito in poche righe. Ci terrei solamente a sottolineare due aspetti. Il primo riguarda il fatto che la rivoluzione digitale è un fatto, che, senza necessariamente cedere ai miti estremi della cyberdemocrazia come la tratteggia, ad esempio, Pierre Lèvy, non può non essere contemplato nel momento in cui riflettiamo su e “pratichiamo” la democrazia. Il secondo aspetto, invece, è la riflessione sul modello di democrazia che abbiamo in mente, quello che consideriamo adeguato. Tratto difficilmente ineliminabile a prescindere dai modelli è l’ampiezza della partecipazione politica che dovrebbe riuscire a coinvolgere tutte le donne e gli uomini, i quali dovrebbero tendere ad essere cittadini quanto più consapevoli e attivi. Ora le domande (molto semplificate e me ne scuso) sono le seguenti: il “digitale” colma tutte le mancanze possibili in questo senso o addirittura, per certi versi, può creare nuovi esclusi? E ancora: quanto la democrazia “digitale” ci rassicura sull’adeguata formazione del ruolo di cittadini?

Uno dei target del goal 16 di Agenda 2030 “Pace, giustizia e istituzioni solide” ribadisce la necessità di “allargare e rafforzare la partecipazione dei paesi in via di sviluppo nelle istituzioni di governance globale”. Solo in quelli in via di sviluppo secondo voi? O abbiamo una crisi di partecipazione anche nel nostro Paese, per esempio? Come riconquistare i cittadini e riportarli a fare i cittadini?

Quello della cittadinanza attiva e consapevole e di quali siano gli strumenti per potenziarla – afferma Perni –  è il problema democratico per eccellenza. La questione può essere affrontata su diversi livelli. Da un lato c’è quello che riguarda i singoli, il loro porsi “nella” democrazia. Si tratta di una questione educativa e culturale, che investe anche la libertà personale. Dall’altro lato vi è il livello istituzionale, le garanzie che vengono date “dall’alto” perché sia possibile – questa volta “dal basso” – il controllo dell’autorità e la partecipazione politica. Sono secoli che dibattiamo su questi temi; tuttavia ogni epoca storica ha le sue peculiarità, deve trovare la propria ricetta. Inoltre i due livelli citati si richiamano necessariamente. Faccio un esempio, legato anche al mio campo di studi specifico. Possiamo immaginare un potere che si fa quanto più accessibile, aperto e permeabile all’esterno e che struttura i propri meccanismi anche e soprattutto grazie all’apporto – la partecipazione, appunto – dei cittadini. Bobbio, tra le diverse e possibili definizioni della democrazia, prediligeva proprio quella che la presentava come “potere in pubblico”. Se, però, i cittadini non hanno strumenti e competenze per realizzare la partecipazione, sono male o per niente informati, o più semplicemente non vogliono averne a che fare, l’intera costruzione viene meno.

Il libro parla anche di una “rinnovata partecipazione” che vede nel movimento Fridays for future un fermento positivo del quale “bisognerà testare la resistenza”. Quali sono stati, a vostro avviso, gli ingredienti giusti che lo hanno generato? Su cosa si dovrebbe puntare, allora, per ricostruire il desiderio di protesta, partecipazione, richiesta di attenzione dei cittadini?

La partecipazione di tante e tanti giovani al movimento Fridays for future – ricorda Romina Perni – ci ha imposto una rimodulazione di alcuni passaggi del nostro libro, soprattutto quelli che riguardavano la crisi della partecipazione. Sicuramente queste mobilitazioni rappresentano una ventata d’aria fresca, un’energia che non possiamo non ritenere positiva. Puntano l’attenzione su un tema di respiro generale, ma che interessa anche le nostre concrete esistenze. Inoltre, hanno un riferimento, l’impegno di Greta Thunberg, che rappresenta un controcanto rispetto ai motivi dominanti del dibattito pubblico e che ha saputo prendersi la scena. Certo, non si può dire che con questa vivacità si sia risolto il problema della crisi della partecipazione in seno alle democrazie contemporanee. O che questo movimento non abbia bisogno di dotarsi di un assetto tale da non essere spazzato via alle prime difficoltà. Sicuramente pacifismo e movimento ambientalista, nelle forme che stiamo vedendo ora, avrebbero da dirsi molte cose e potrebbero e dovrebbero intrecciare riflessioni e azioni.

Pensate che ci sia la giusta consapevolezza della potenza delle tecnologie digitali da poter utilizzare per raggiungere gli obiettivi di Agenda 2030? Cosa servirebbe per vedere con maggiore ottimismo quei 17 goal?

C’è la giusta consapevolezza? Si, no, forse. Non voglio scappare dalla domanda, ma credo che la risposta debba essere modulata soprattutto perché l’Agenda 2030 guarda al mondo, non a parte di esso. Ci sono generazioni che sanno benissimo quanto possa essere rivoluzionario l’impatto delle tecnologie digitali. Altre che non ne hanno contezza. Ci sono strati di società che vivono ai margini di questa realtà, altri che ci convivono con totale passività e finiscono per restare stritolati da quel mix di propaganda, complottismo e controllo che la rete può offrire. Ci sono, inoltre, milioni di cittadini nel mondo che vivono sotto regimi autoritari: per loro la rete può essere la grande opportunità per far crescere istanze democratiche, ma anche uno straordinario strumento di censure e limitazione delle libertà. Sull’ottimismo… con una battuta direi che, scaramanticamente, il numero degli obiettivi non aiuta. Tornando seri – chiosa Roberto Vicaretti – credo serva una speranza, una visione che sappia andare oltre l’ultima emergenza, ma che, con onestà, sappia guardare in faccia le cause che hanno segnato le ultime crisi.

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