Sanità Digitale: a che punto siamo, dove vogliamo andare

La pandemia ha permesso di capire l'importanza di un sistema informativo adeguato, anche se per la sanità italiana il Cloud resta ancora un oggetto quasi sconosciuto: i motivi per cui, soprattutto in questo momento, si deve andare sulla "nuvola"

La digitalizzazione delle strutture sanitarie pubbliche italiane è un processo partito moltissimi anni fa, intorno ai primi anni ’90, quando l’informatica fece il suo ingresso negli ospedali e nelle aziende sanitarie locali (che allora si chiamavano Unità Sanitarie Locali, e in tutta Italia ce n’erano svariate centinaia).

Da allora e sino praticamente ad oggi, la storia dell’informatica in Sanità è fatta in larghissima parte da processi “abituali” riproposti “pari pari” sugli schermi dei computer. Niente che assomigli anche solo minimamente a una vera e propria “trasformazione digitale”.

Da allora, e le cose non sono cambiate a tutt’oggi, il rapporto tra domanda e offerta in questo mercato specifico è quello che nel linguaggio dei social media sarebbe definito “una relazione complicata”.

L’offerta non ha brillato, per anni, in quanto a capacità di sorprendere la domanda offrendo soluzioni meravigliose, e la domanda non ha potuto chiedere di più ai suoi fornitori potendo disporre di budget ai limiti del risibile.

Un ospedale italiano spende, a parità di dimensioni e complessità organizzativa, molto meno della metà di un equivalente ospedale austriaco, tedesco o britannico. Se saliamo ancora più a Nord, un CIO di un ospedale svedese o finlandese ha un budget più che triplo di quello di cui dispone un suo omologo italiano. E, naturalmente, l’offerta ha sviluppato soluzioni all’altezza della situazione e dei budget.

Il Top Management di una ASL o di un’Azienda Ospedaliera fatica a comprendere il valore di un sistema informativo, e se si deve scegliere fra l’acquisto di un nuovo software e quello di un nuovo sistema di illuminazione in reparto, la scelta cade inevitabilmente sul secondo.

In assenza di budget adeguati e di un reale committment da parte delle Direzioni Strategiche, le strutture sanitarie pubbliche hanno costruito nel corso di trent’anni una vera e propria Babele informatica, fatta di centinaia di applicativi più o meno integrati fra loro.

Non sono pochi gli Ospedali dove il CIO spende annualmente più soldi per garantire l’integrazione fra le varie componenti del suo sistema informativo rispetto a quanti ne spende per manutenere il sistema stesso.

Tutto ciò è paradossale, ma da sempre non si vede la via d’uscita.

L’evento che potrebbe scompigliare le carte, purtroppo, è rappresentato da questa maledetta emergenza Covid-19, nel corso della quale si è capito e si sta continuando sempre più  a capire e ad apprezzare il valore di un sistema informativo degno di questo nome.

Se ne è già accorta l’offerta: praticamente tutti i grandi Market Player sono al lavoro per rivoluzionare la loro proposizione e – conseguentemente – i loro prodotti.

Se ne è già accorta la domanda, anche in considerazione dei fondi straordinari che potrebbero arrivare grazie al “Next Generation Italia”, coi 9 miliardi stanziati per la Sanità di cui 5 destinati esplicitamente alla digitalizzazione e alla telemedicina.

Ci sono tutti i presupposti  perché questo mercato possa cambiare marcia e viaggiare a una velocità (e a una corrispondente qualità) maggiore di quanto non abbia fatto sino ad ora.

Rimangono alcuni punti in sospeso, a partire da tutto quanto riguarda la sicurezza informatica.

Molte “sale server” (definirli “data center” sarebbe davvero troppo) negli ospedali italiani sono in condizioni tecnologiche quantomeno preoccupanti. Al netto, è doveroso dirlo, dalle numerose e lodevolissime eccezioni, soprattutto nelle strutture sanitarie del Nord e del Centro del Paese.

Il cloud rimane ancora un oggetto quasi sconosciuto, visto con diffidenza quando non addirittura considerato non applicabile per non meglio precisate ragioni di tutela della riservatezza del dato.

Paradossalmente, la riservatezza del dato è molto più tutelata in un grande data center Cloud che non in un piccolo ospedalino di provincia, come dimostrano i numerosi attacchi subiti, molti dei quali taciuti per carità di patria.

L’imminente entrata in scena della Telemedicina, ancora una volta grazie all’abbondanza di fondi disponibili e dalla necessità di tenere lontani dagli ospedali e dalle altre strutture di diagnosi e cura quanti più pazienti è possibile, amplificherà considerevolmente il problema della scarsa interoperabilità e dell’inadeguatezza delle infrastrutture.

Facendo emergere un ulteriore problema ancora per molti versi sottovalutato: la quantità di storage e la sua gestione ottimale e sicura.

Qualche numero per capirci meglio: un paziente medio ricoverato in un ospedale medio (facendo quindi la media fra casi e reparti di complessità differente), genera nel corso di tutta la sua degenza media (6 giorni) qualcosa come 80 Megabyte di dati.

Quasi il 90% di questo volume di dati è fatto di immagini digitalizzate (RX, TC, RMN, ecc.), il rimanente 10% sono testi e sequenze numeriche (telemetrie cardiologiche, rilevazioni da monitor di terapia intensiva, parametri, ecc.).

Un paziente cronico medio trattato in ambulatorio genera all’incirca 40 Megabyte di dati ogni anno. Questo dato cresce di 1-2 ordini di grandezza in funzione della complessità di patologia.

La quantità di dati generati da un paziente ricoverato o gestito in ambulatorio cresce all’incirca di un 40% anno su anno: lo fa in funzione del combinato disposto fra innovazione tecnologica (aumento della definizione delle apparecchiature di diagnostica per immagini, introduzione dei vetrini digitali in anatomia patologica, ecc.) e incremento della quantità di documentazione prodotta grazie alla progressiva digitalizzazione in sanità.

Se consideriamo un ospedale con 300 posti letto mediamente saturati e un’attività ambulatoriale quantificabile in 10.000 visite/anno, ipotizzando che all’anno zero (oggi) il suo sistema informativo abbia in pancia uno storico di poco inferiore ai 50 Terabytes (10 anni di dati pregressi), e proiettiamo il fabbisogno di storage nei 20 anni successivi, otteniamo un risultato simile a 3,6 Petabytes.

Moltiplichiamo questo numero per 3: i dati in linea, una replica necessaria a garantire la continuità operativa in caso di calamità o simili, una replica di backup.

Difficile pensare che ogni singolo ospedale possa reggere l’impatto derivante da questa progressione esponenziale del fabbisogno di storage, soprattutto se consideriamo anche gli aspetti relativi alla sicurezza ed alla necessità di mantenere adeguate le performances dell’intero sistema informativo.

Se consideriamo un ciclo di vita del dato di un paziente come una storia lunga 80-90 anni e lo paragoniamo al ciclo di vita dell’hardware in un sistema informativo ospedaliero, ci rendiamo facilmente conto del fatto che ogni singola storia clinica vivrà al minimo fra le 7 e le 10 migrazioni. Da far girar la testa anche al più ottimista fra gli IT Manager.

Se poi teniamo conto che l’integrazione ospedale/territorio e lo sviluppo di nuovi modelli di presa in carico e cura dei pazienti (interazione fra ospedale, centro di cura primaria, telemedicina) produrrà esigenze sempre più forti di cooperazione fra sistemi informativi afferenti a strutture esterne all’ospedale, riusciamo a comprendere che il problema diventerà serio molto prima di quanto possiamo pensare.

Se aggiungiamo a tutto questo anche la mole straordinaria di dati in arrivo dalle piattaforme di Telemedicina, ci rendiamo conto che non esistono altre soluzioni al di fuori del Cloud.

Per rispondere alla domanda posta nel titolo: dovremo necessariamente andare sulla nuvola.

Per ragioni di costi, di maggiore sicurezza, di scalabilità immediata, di comodità d’accesso in situazioni di mobilità.

E possiamo approfittare di questo momento di vera e propria disruption per accelerare le scelte.

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