“Ti condurrei per mano”: messaggio senza melodia ed equivoco nella lingua digitale

È difficile riesaminare ciò che scriviamo o leggiamo in un post e provarsi a intuirne la ‘melodia’: nell’ottica della sostenibilità digitale, il problema che si pone riguarda in modo specifico l’atto intenzional-comunicativo della scrittura

(…) Trema un ricordo nel ricolmo secchio,

nel puro cerchio un’immagine ride.

Accosto il volto a evanescenti labbri:

Si deforma il passato, si fa vecchio,

appartiene ad un altro (…)

E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, Ossi di seppia

 

Il susseguirsi di una sillaba tonica e di una sillaba atona determina il ritmo di enunciazione delle parole. Potremmo dire, diversamente, di sillabe forti e deboli. Di fatto, l’italiano digitale non è interessato alla fenomenologia del suono e alla disciplina di pertinenza, la fonologia. In apparenza, non gli si può dare torto. La rete è scrittura; è, anzitutto, immagine e video; e lo spazio per i nostri enunciati è una sottocategoria del tempo: la nostra scrittura ha una durata; a un certo punto, viene sovrascritta da altra scrittura e il processo, peraltro, è tanto inarrestabile quanto incontrollabile. Quando pensiamo d’avere scritto qualcosa d’importante o – perché no? – avvincente, siamo subito costretti ad accettare che la memoria della rete è corta o pressoché nulla. La quantità prevale sulla qualità. La pretesa d’essere essenziali o ‘utili’ con le proprie opinioni è vana, a meno di trasformarsi in influencer. In quest’ultimo caso, tuttavia e per paradosso, le parole contano ancora meno perché ciò che conta è lo status, il valore iconico-simbolico della lingua e delle forme. Le forme stesse sono esclusivamente simboliche, non più e non solo logiche.

In un quadro linguistico di estrema rapidità, è davvero difficile riesaminare ciò che scriviamo o leggiamo in un post e provarsi a intuirne la ‘melodia’. Già il termine “melodia”, abbandonato sulla pagina con un’attribuzione di significato siffatta, potrebbe far sorridere i più. Figuriamoci quale potrebbe essere la reazione comune, se proponessimo all’utente di badare alla successione di arsi e tesi. Cui prodest? L’arsi e la tesi, infatti, sono le condizioni accentuali della metrica classica mediante le quali si delinea una sequenza prosodica o ritmica. Arsi è un nome deverbale greco, ἄρσις (àrsis), che, traendo il proprio significato dal verbo αἴρω (àiro, innalzo, sollevo), significa, per l’appunto, alzata, sollevamento e indica l’inizio di un tempo forte. La tesi, al contrario, ne determina uno debole. Deriva anch’essa dal greco, θέσις, thèsis, ossia il mettere, collocazione, disposizione e si forma dal verbo τίθημι (tìthemi, porre, collocare,mettere ). Tutte le nostre enunciazioni sono caratterizzate da innalzamento e abbassamento dei toni; le nostre frasi sono, anzitutto, successioni emotivo-melodiche: essendo motivate da intenzioni, presentano una precisa curva intonazionale.

Ebbene? Perché un utente digitale dovrebbe darsene pensiero? Rispondiamo alla domanda ‘retorica’ con un’altra domanda, per quanto possa risultare inelegante: siamo convinti di poterne fare a meno? In realtà, di qua dai tratti prosodici appena descritti, a seconda degli elementi paralinguistici o soprasegmentali che involontariamente adottiamo, il significato della frase cambia. Esitazioni, pause e intonazione, in sostanza, sono decisive nella trama filogenetica e ontogenetica del parlato. Nell’ambito di un tweet, limitato da 280 caratteri, queste componenti, però, vengono pericolosamente a mancare, cosicché siamo costretti a colmare la lacuna col rigore della logica e della lessicografia o col simbolismo deduttivo.

A proposito delle funzioni dell’intonazione, possiamo istruire un esempio che riteniamo possa essere utile a ridurre la fatica di comprensione di chi non ha dimestichezza con l’argomento. Lo facciamo riformulando uno spunto di Alberto Sobrero e Annarita Miglietta pubblicato in Introduzione alla linguistica (2006, p. 190).

  1. Perché non studi? (ovvero = per quale motivo non lo fai?)
  2. Perché? Non studi? (ovvero = chi fa la domanda era convinto che il destinatario studiasse)
  3. Perché non… studi? (ovvero = chi fa la domanda è preoccupato ed è sorpreso di scoprire che il destinatario non studia)

E non abbiamo accennato affatto alla prossemica e, in generale, a tutta l’area del linguaggio non verbale: per farla breve, una smorfia può dire molto di più di un’intera frase. Con una lieve forzatura, possiamo affermare che una smorfia è ‘olofrastica’. Per “olofrastico” s’intende quell’elemento linguistico che può sostituire un’intera frase. I monosillabi “sì” e “no”, per esempio, sono olofrastici: “Hai studiato?”; “No!” (ovvero = “non ho studiato”). Nel caso della smorfia, non abbiamo di certo una parola, ma ricorriamo a un elemento cinestetico per far comprendere le nostre intenzioni. Se, oggi, non si presta molta attenzione all’accentazione, un tempo, invece, cioè in piena età classica, anche un profano era costretto a tenere conto della quantità delle sillabe (lunghe e brevi), su cui si regolava la curva intonazionale sia del latino sia del greco. Per completezza d’informazioni, aggiungiamo che il passaggio dalla vocale lunga a quella chiusa e della vocale breve a quella aperta avvenne più o meno nel periodo tardo-imperiale. Non andiamo oltre con le nozioni perché il contesto non è idoneo, ma è essenziale sapere che il processo di trasformazione fonetica dal latino alle lingue romanze è stato lungo, complesso e composito.

Se, per certi aspetti, in un post di Facebook, la cui lunghezza non è limitata, possiamo tentare in diversi modi di arricchire il testo e introdurre ‘materiale’ di connotazione e far trasparire il piano emotivo-intenzionale, su Twitter, come abbiamo detto, ciò non è possibile; la qual cosa dà adito a una reductio ad absurdum monca, a una sorta di negazione implicita incombente e permanente, indimostrabile, non altrimenti che se s’instaurasse una dialettica dell’equivoco tra autore e lettore. Nell’ottica della sostenibilità digitale, il problema che si pone riguarda in modo specifico l’atto intenzional-comunicativo della scrittura, problema che appare privo di soluzione. In parole povere, il primato della comunicazione totale a lungo sbandierato potrebbe essere stato solo un effetto illusorio e i luoghi della scrittura digitale potrebbero essere diventati, a poco a poco, degli attivatori di distanze.

Nel capitolo precedente, s’è parlato di scrittura emotiva, riferendo che essa, in quanto forma dominante sui social network, in apparenza, aggrega gli utenti facendoli convergere verso stati d’animo comuni, quali quelli di un tramonto, di un buongiorno et cetera, ma, nella sostanza, li separa sul piano dell’arbitrarietà incondizionata. Qui, aggiungiamo un’altra considerazione a proposito d’un altro medium, quello delle chat: se un uomo, rivolgendosi a una donna sconosciuta dalle cui immagini è stato sedotto, anziché limitarsi a un anodino “Ciao, sei bella”, le scrive “ti condurrei per mano lungo sentieri ignoti”, “t’incontrerei subito” et similia, egli, in pratica, viola la semantica della convergenza e rischia d’essere respinto o come molestatore o come seduttore diabolico. Ciò di cui il corteggiamento è privo è, anzitutto, l’intonazione, la melodia con cui le parole, una volta composte, diventano funzioni perlocutive. In secondo luogo, come si è fatto notare, mancano le sottolineature cinestetiche, che possono generare una dialettica fiduciaria.

“Parlando ad un nuovo interlocutore, ciascuno cerca sempre, deliberatamente o involontariamente, di convergere su un vocabolario comune: sia per compiacenza sia semplicemente per essere compreso (…) La proprietà privata non esiste nel linguaggio: tutto è sociale” (JAKOBSON, R., 1963, Essais de linguistique generale, trad. it. di L. Heilmann e L. Grassi, Saggi di linguistica generale, 1966, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, p. 12)

Le parole sono segni e simboli, possono creare legami di fiducia e amore, ma recano un sé un pericolo costante: sono equivoche. Gaetano Berruto e Massimo Cerruti, nel proprio testo di linguistica (La linguistica, 2017, p. 82), nel tentativo di spiegare le lingue tonali, ci danno una testimonianza esemplare: in cinese mandarino, secondo che una parola sia pronunciata con uno o con un altro tono, il significato cambia in modo radicale. MA con tono alto e costante significa mamma. Il tono alto e ascendente, invece, muta il significato in lino, canapa. Il MA detto con tono basso discendente-ascendente vuol dire cavallo. Se usiamo il tono alto discendente, diciamo ingiuriare o bestemmiare e, se il tono diventa neutro, allora si tratta di una particella interrogativa. La lingua italiana, che è a isocronia sillabica, sotto il profilo intonazionale, tutto sommato, è meno faticosa. Ciò non implica – si badi bene! – un giudizio di merito sulle lingue, bensì unicamente una nota funzionale.

Ciò che più conta, a questo punto, è comprendere che, quando un parlante intende comunicare qualcosa, il messaggio finito viene elaborato anzitutto facendo astrazione dalla cosa, ovverosia dai nessi segnico-referenziali da cui il messaggio stesso è stato originato. Non c’è alcuna corrispondenza logica tra significante e referente. Ricordando una pubblicità efficace e arcinota, sappiamo che un gorilla che entra al bar e chiede qualcosa da bere contrasta immediatamente la continuità della catena di significanti, interrompendola, ma restituisce a essa l’effettualità della sua profonda inesauribile materia originaria. L’utente sorride alla vista del gorilla che chiede una bevanda e si appresta, in questo modo, senza avvedersene, a percepire l’immagine dell’altro nel presunto senso diverso. Il sorriso è uno dei primi atti di riconoscimento del mondo esterno che il bambino realizza tra il primo e il secondo mese di vita; solo in età adulta il sorriso acquisisce le determinazioni della relazione con l’altro. Il sorriso suscitato dal gorilla ha segnato un percorso storico atemporale. Ciò che era, è e sempre sarà per natura si è fatto referenziale, particolare nella dinamica delle relazioni.

 

 

 

 

 

Bibliografia minima

BERRUTO, G., CERRUTI, M., 2017, La linguistica, UTET, Torino

NESPOR, M., 1993, Fonologia, il Mulino, Bologna

SOBRERO, A., MIGLIETTA, A., 2006, Introduzione alla linguistica, Laterza, Bari

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