Clamoroso equivoco: WhatsApp e un esempio di analfabetismo funzionale

Il punto, se collocato alla fine di un messaggio Whatsapp, è percepito come segno di insincerità, spesso di ostilità. Questo è l'argomento di un articolo scientifico che, involontariamente, ci ha rivelato il modo in cui le persone comprendono i testi

Immagine distribuita da PxHere con licenza CC0

Ogni cosa avrebbe potuto essere qualsiasi altra

ed avrebbe avuto lo stesso significato

T. Williams, La maledizione

 

Il punto, cioè quella convenzione ortografica che, comunemente e con disinvoltura, utilizziamo per indicare una pausa forte, se collocato alla fine di un messaggio WhatsApp, è percepito principalmente come segno di insincerità, anche se non mancano coloro che lo giudicano aggressivo, ostile, preoccupante. È bene precisare immediatamente: il punto, non il punto interrogativo o quello esclamativo. Questa tesi nasce non già dalla strampalata meditazione d’una qualche conventicola ‘infradigitale’, bensì dal lavoro scientifico di un gruppo di studiosi chiaramente riconducibili al Dipartimento di Psicologia della Binghamton University di New York, i quali, nel 2015, pubblicarono sull’autorevolissima rivista Computers in Human Behavior l’articolo Texting insincerely: The role of the period in text messaging vale a dire Scrivere messaggi di testo in modo insincero: il ruolo del punto nella messaggistica testuale. Un paio di doverose precisazioni! A proposito: il punto esclamativo genera enfasi; non a caso, prima, era noto come punto ammirativo. Prima precisazione: abbiamo usato l’espressione “studiosi chiaramente riconducibili a (…)”; intendiamo precisare, per l’appunto, che non si tratta d’una perifrasi e, inoltre, che presto la scelta linguistica sarà più che motivata. Seconda precisazione: l’argomento dell’articolo scientifico non è la punteggiatura, ma il modo in cui è percepito il punto alla fine di un discorso.

Qualcuno, un qualsivoglia osservatore attento, potrebbe dire: – Perché ripeterlo? La tesi è già stata formulata in apertura -. Come dargli torto?! Ancora una volta il punto esclamativo, pure accompagnato da un punto interrogativo: repetita iuvant, ma anche melius abundare quam deficere. In effetti, s’è detto nettamente e inequivocabilmente della percezione. Anche in questo caso, però, è sufficiente avere un po’ di pazienza per scoprire la causa della ripetizione. Cominciamo col dire che gli autori di Texting insincerely hanno goduto – e godono tuttora, nonostante il tempo trascorso – di parecchia fortuna letteraria. Il successo di pubblico, forse, è stato superiore alle loro stesse aspettative, a tal punto che molti giornali ‘eccellenti’ hanno ripreso e rilanciato, dagli Stati Uniti all’Italia, il loro contributo: New York Times, Focus, la Repubblica et alii. Qui, cioè nella relazione tra scienza e divulgazione per il tramite dei social network, si materializza quasi sempre qualcosa d’insostenibile – tanto per richiamare l’attenzione su un aggettivo a noi caro. In pratica, in questo scambio indiretto tra gli studiosi del Dipartimento di Psicologia della Binghamton University, i giornalisti e il grande pubblico, l’equivoco s’è fatto clamoroso, sebbene il termine “equivoco” sia manifestazione di grande generosità e tolleranza. Di fatto, l’analfabetismo funzionale, com’è stato annunciato nel titolo, è lapalissiano.

La maggior parte dei lettori s’è profusa in commenti sul valore delle norme interpuntorie, in litanie sulla decadenza della lingua italiana, in cantilene sulle regolette grammaticali da rispettare a qualsiasi costo e, in generale, in frasi fatte sulla retorica dei costumi che, in ultimo, sarebbero sempre più corrotti. Alcuni hanno pure invocato l’Accademia della Crusca, accusandola velatamente di pusillanimità, come se essa fosse un’istituzione rappresentata da ronde armate di manganello e con scopi prettamente puntivi. Di fatto, tutta questa boria sulla lingua è un sensazionale fuori tema, sebbene, ormai, sia una sorta di classico dell’ermeneutica digitale. Il guaio è che, a mano a mano che si procede oltre nella conquista del progresso tecnologico, che, indubbiamente, giova sia alla nostra sana epistemologia sia all’evoluzione della specie, il distacco intellettuale dell’utente medio cresce sempre di più. Ciò che dovrebbe costituire un vero e proprio primato evolutivo e, di conseguenza, motivo d’orgoglio e sprone all’apprendimento, nella realtà, diventa una giustificazione obliqua della pigrizia. Le prefigurazioni concettuali acquisite tempo fa, molto probabilmente all’inizio dell’era digitale, si sono trasformate in blocchi di pensiero, causando l’immobilità delle interazioni, cosicché, se un giornalista propone la percezione del punto, rifacendosi a una ricerca scientifica, il sintagma nominale non viene neppure preso in considerazione e si bada unicamente alla specificazione. In parole povere, tra i due elementi, viene accolto quello che già fa parte di un certo blocco di pensiero.

È evidente, più che evidente, a questo punto, che i fruitori non hanno letto neppure la ripresa giornalistica, poiché, in quasi tutti gli articoli pubblicati in questi anni sui quotidiani, le fonti sono state ampiamente riportate, in alcuni casi pure con un bel link di collegamento. Questo male sociale, purtroppo, è universalmente noto, tanto che, su Twitter, per esempio, quando ci si accinge a ritwittare qualcosa che contenga un articolo, si riceve una segnalazione automatica in cui si chiede: – Vuoi prima leggere l’articolo? -.

Interrogare l’utente, esortandolo a impegnarsi nella lettura, è atto dovuto, anche se ne possiamo intuire l’inefficacia, inefficacia di cui i gestori del social network non hanno colpa, ovviamente. Ne deriva l’irrimediabile tangenzialità di cui abbiamo parlato in Labbra sporgenti, ammiccamenti, tramonti: la scrittura emotiva. In sostanza, le vie del soggetto proponente e quelle di chi interviene non s’incontrano mai perché i commenti, il più delle volte, non hanno alcun legame di pertinenza con l’articolo; a malapena, sulla base dell’impatto emotivo, ci si rifà al titolo, per il quale si finisce coll’accusare il giornalista, senza rendersi conto che la retorica è un’arte antica che contempla ‘provocazioni’, ‘enigmi’, ‘allettamenti’ et similia. La questione dei sintagmi, che abbiamo accennata in precedenza, implica veri e propri dilemmi semantici. Se leggiamo “la percezione del punto” e isoliamo in termini di valore “del punto”, portando il sintagma preposizionale in un’innaturale e irreale posizione enfatica, l’alterazione del senso è istantanea e inevitabile, poiché i significanti, combinandosi tra di essi, danno vita ora a uno ora a un altro significato: un significato assoluto non esiste. Sarebbe oltremodo interessante, in tal senso, sviluppare dei diagrammi ad albero, fare dei ragionamenti sulle entrate lessicali e valutare tema e rema almeno d’una frase semplice, tuttavia, per questo, invitiamo il lettore ad altri approfondimenti e ci limitiamo solo a farne menzione. Se, infatti, ci dedicassimo a diagrammi, entrate lessicali e tema e rema, in un ambito di sostenibilità della lingua digitale, il “fuori tema” sarebbe nostro.

Crediamo, adesso, di avere arricchito in modo adeguato la seconda precisazione, ovverosia quella dell’argomento dell’articolo scientifico. Ci resta la prima, benché essa sia già bell’e compiuta, quasi si fosse personificata innanzi ai nostri occhi: circa l’espressione “studiosi chiaramente riconducibili a (…)”. Nessuna forma di ostentazione s’è impossessata di noi; non facciamo parte del gruppo di ricercatori della Binghamton University; di conseguenza, la nostra imparzialità non può essere messa in discussione. Il dilemma, questa volta psicologico ed esistenziale, non semantico, è dato dalla grande confusione che si fa scambiando continuamente e impunemente un articolo di un giornale con un articolo scientifico, a tal punto che si sente dire spesso e si legge ancora più di frequente “l’ho letto in un articolo scientifico”. Leggere l’articolo di un quotidiano che, correttamente, riporta una fonte scientifica non vuol dire affatto leggere l’articolo scientifico di riferimento. Sì, è vero: quest’altra precisazione appare banale, ma, essendo l’erroneo scambio ricorrente, è testimonianza, purtroppo, dell’enorme disagio intellettuale che ne scaturisce e dei bizzarri convincimenti da cui si originano i blocchi di pensiero.

Un lavoro scientifico, oltre a riportare il profilo degli autori e la loro appartenenza, per così dire, deve essere presentato con un abstract, accompagnato dalle Keywords, illustrato con un metodo, supportato dalle referenze, in modo che sia chiaro il processo di peer review, corredato di risultati e discussioni, così da consentire a chi legge l’accesso all’intero sistema d’indagine. Nel caso in specie, quello che concerne Texting insincerely: The role of the period in text messaging, i redattori di Computers in Human Behavior, indicano addirittura le tappe del cosiddetto referaggio: “Received 21 August 2015, Revised 1 November 2015, Accepted 4 November 2015, Available online 22 November 2015, Version of Record 22 November 2015”.

Ebbene? Se si fosse fatta la fatica di cliccare sul link indicato dai quotidiani e si fosse data anche solo un’occhiata al testo, ci si sarebbe resi conto che il tema non era la punteggiatura, ma tutt’altro: la percezione del punto, come si è detto. Bisogna dire, tra le altre cose, che, in questo caso, neppure i titoli degli articoli giornalistici erano ambigui.

Sul New York Times, si legge come sottotitolo: To younger people, putting a period at the end of a casually written thought could mean that you’re raring for a fight. Nel caso non si conosca la lingua inglese, si può anche utilizzare il traduttore di Google per capire che per i più giovani questo famigerato punto indica aggressività. Insomma, la tecnologia, se usata in modo opportuno, può essere di grande aiuto. Il titolista di la Repubblica gioca un po’ con l’ambiguità, ma senza eccessi: la protasi tra parentesi, “se non state litigando”, è sufficiente a che si possa fugare ogni dubbio.

A ogni modo, resterebbe la matrice, per così dire, ovverosia il testo pubblicato su Computers in Human Behavior, dove si legge qualcosa di lampante: “(…) focusing on the contents of texts, but not how receivers comprehend texts”, “basandoci (concentrandoci) sul contenuto dei testi, ma non su come i destinatari comprendono i testi. Essi aggiungono pure che il fine è quello di “convey pragmatic and social information” (“trasmettere informazioni pragmatiche e sociali”).

Insomma, un documento che non era dedicato allo studio del modo in cui le persone comprendono i testi ci ha rivelato il modo in cui le persone comprendono i testi.

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