Oggi, in occasione dello “Zero Discrimination Day”, giornata annuale lanciata per la prima volta dall’UNAIDS – il programma delle Nazioni Unite che guida lo sforzo globale per porre fine all’AIDS entro il 2030 – il 1º marzo del 2014, l’attenzione viene posta su un tema fondamentale per perseguire lo sviluppo sostenibile: porre fine alle disuguaglianze in termini di reddito, sesso, età, stato di salute, occupazione, disabilità, orientamento sessuale, razza, classe sociale, etnia e religione che continuano a persistere in tutto il mondo.
Qui su Tech Economy 2030, come per la Giornata Mondiale per la Giustizia Sociale, abbiamo realizzato un pezzo “corale”, chiedendo ad alcuni membri del Comitato Scientifico e di indirizzo del Digital Transformation Institute di fornire il proprio punto di vista sul tema, inquadrato nel contesto della trasformazione digitale in atto.
Le tecnologie per l’inclusione e il rispetto delle differenze
“La tecnologia è neutrale, ma è anche uno strumento molto potente, e per questo è fondamentale farne buon uso”, ci spiega Carlo Bozzoli, Direttore della Funzione Global Digital Solutions (GDS) di Enel. E un corretto utilizzo, in questo senso, è in grado di evidenziare quale sia la sua portata trasformativa, anche in termini di accessibilità ed inclusione: “Ha cambiato molti aspetti della nostra vita, dall’istruzione al mondo del lavoro e, in generale, ha modificato il modo di acquisire informazioni e di comunicare con gli altri. Oggi basta avere un pc, uno smartphone e una connessione ad internet per poter accedere ad un enorme patrimonio di conoscenze o interagire con qualcuno dall’altro capo del mondo; possiamo seguire corsi di formazione tenuti da illustri professori di ogni nazionalità, pur restando nella nostra città; abbiamo scoperto anche che i nostri figli possono frequentare la scuola e imparare anche da casa con la didattica a distanza, cosa che si è rivelata di fondamentale importanza soprattutto durante la pandemia. La conoscenza è diventata davvero un bene comune, accessibile da chiunque, in qualunque parte del mondo, in qualsiasi momento. Ma non solo: pensiamo, ad esempio, all’utilizzo della sintesi vocale per comunicare e per interagire con le applicazioni o, semplicemente, alla possibilità di ascoltare un audiolibro. Insomma, esistono moltissimi esempi di come le tecnologie digitali costituiscano una leva decisiva nel contrastare le disuguaglianze di ogni genere”.
Di questo stesso avviso è l’avvocato Giovanni Battista Gallus, secondo il quale “spesso tendiamo a dimenticarci quanto le tecnologie digitali siano dei formidabili abilitatori della conoscenza, consentendo l’accesso diffuso a fonti prima difficilmente raggiungibili, o estremamente costose. La diffusione dell’educazione a distanza e dello smart working hanno certamente eliminato delle barriere, contribuendo a ridurre possibili discriminazioni”. Ma non solo, anche “dal punto di vista dell’accesso alla sanità, la diffusione dei sistemi AI potrebbe contribuire a ridurre i costi, e a consentire sofisticate diagnosi “personalizzate” a fasce ben più ampie di popolazione”.
Per affrontare un tema così delicato, in un momento in cui le tecnologie e le piattaforme digitali stanno assumendo un ruolo sempre più centrale nella vita di ognuno, non si può quindi prescindere dal riflettere su come queste debbano essere utilizzate in senso inclusivo, evitando che, al contrario, possano accentuare le distanze preesistenti. “Stiamo attraversando un’epoca in cui l’accelerazione digitale è così forte da rischiare di creare uno strappo, una frattura dal punto di vista economico e sociale – spiega Enrico Mercadante, responsabile innovazione di Cisco Italia – Il ‘digital divide’, inteso come l’accesso limitato alle competenze e ai mezzi per poter competere come individui, come aziende e come nazioni in questa nuova vorticosa economia e socialità basata anche sul digitale, raggiunge ormai i connotati di una faglia in continua evoluzione. Come Cisco, siamo impegnati ad avere un impatto positivo su 1 miliardo di persone entro il 2025, ed il nostro impegno è quello di costruire un futuro che sia inclusivo per tutti, senza lasciare indietro nessuno. Infatti, iniziative globali come le Networking Academy, che hanno formato negli anni più di 12 milioni di studenti, vengono utilizzate ad esempio in programmi pilota presso alcune carceri, o in iniziative di formazione per persone senza fissa dimora, grazie a splendide persone che, ogni giorno, lavorano con noi per prevenire questa frattura digitale”. In questa direzione, per indirizzare la trasformazione digitale affinché possa diventare un bene comune senza aumentare le distanze tra gli individui, per Enrico Mercadante “ciascuno di noi, in primis i più giovani, ha la possibilità di diventare un ‘Global Problem Solver’: questo, infatti, è il nome della challenge che abbiamo lanciato, anche quest’anno, per premiare le migliore idee imprenditoriali digitali ad alto impatto sociale”.
Altra opportunità fondamentale abilitata dalle tecnologie, nello stimolare il rispetto nei confronti della differenza, per Alberto Marinelli, Direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale alla Sapienza, Università di Roma, può essere rintracciata nella creatività. “Attraverso le espressioni creative, sui social network site – e in particolare su quelli che usano immagini e video come Instagram e TikTok – si aprono spazi di ‘osservazione delle differenze’, in cui la reciprocità nella messa a nudo (in video) della propria condizione produce una spinta positiva in direzione del rispetto e della reciprocità. Trovo esemplari in questo senso i ‘tutorial’ in cui le persone con disabilità parlano di azioni quotidiane finora non oggetto di comunicazione (semi-pubblica): come vado in bagno, come avviene un rapporto sessuale, e via dicendo. Il coraggio di portare il retroscena sulla scena ha un valore incomparabile in termini di riduzione del pregiudizio”.
Il digitale come strumento di integrazione (anche) territoriale
Ma non solo. Se è infatti vero che le tecnologie costituiscono strumenti potenzialmente fondamentali in grado di ridurre disuguaglianze e discriminazioni a livello personale, individuale, è altrettanto vero che sarebbero anche in grado di venire incontro, innescando processi di integrazione, alle esigenze di intere aree, comunità, popolazioni. Secondo Roberto Lippi, Direttore di UN Habitat Colombia, infatti, “oggi la maggior parte delle città del mondo – in particolare le megalopoli dei Paesi in Via di Sviluppo – soffrono di fattori di segregazione spaziale, dove frontiere invisibili discriminano intere popolazioni – specialmente le minoranze, i giovani e le popolazioni vulnerabili – in funzione di quale sia il quartiere, la via o la zona in cui vivono. E spesso le stesse politiche pubbliche fomentano questi fattori di stigmatizzazione e segregazione, delineando e definendo ‘per legge’ zone omogenee di povertà o ricchezza cui destinare strategie sociale e di sussidio differenziate. Il risultato è una miscela esplosiva di rabbia sociale e discriminazione, che spesso sfocia in violenza cieca. Oggi, ad esempio, l’uso delle tecnologie georeferenziali, di analitica di dati, di collegamento diretto tra il cittadino e l’offerta pubblica di servizi, così come processi molto più dinamici di partecipazione e di ordinamento del territorio, permetterebbero – se applicate secondo una logica antisegregazionista – di rompere le barriere, ridurre la stigmatizzazione sociale, ricollegare il territorio e offrire servizi in maniera molto più adeguata alle esigenze del singolo cittadino o del suo nucleo familiare. Inoltre, permetterebbero di rivedere le politiche abitative, quelle dei trasporti intra ed extra urbani, e la disposizione delle stesse reti di servizi in chiave di integrazione e riduzione delle disuguaglianze”.
In questo senso, grandi vantaggi si potrebbero avere anche dal punto di vista economico, permettendo il rilancio di intere aree – soprattutto periferiche – la cui scarsa visibilità rischierebbe di farle rimanere escluse dal resto del territorio. Secondo Luigi Mundula, infatti, “un’opportunità che le nuove tecnologie possono offrire per colmare il divario esistente è quella di usarle per valorizzare le risorse culturali periferiche, intendendo con questo termine sia i ‘contenitori’ (musei, biblioteche, ecc.) sia le opere architettoniche, ma anche i cosiddetti beni etnoantropologici (danze, feste, sagre, cerimonie, saperi, tecniche ecc.) che sono oggi al di fuori dei circuiti turistici consolidati e dei percorsi di ricerca sul web. Una volta digitalizzate tali opere, attraverso la creazione di software dedicati – o di app – è possibile ricentralizzare questo patrimonio, sconosciuto ai più, creando nuovi percorsi di visita tematici e dando vita a nuove economie, rilanciandoli sulle base delle proprie identità e valori. La fruizione virtuale può essere poi combinata con quella fisica attraverso la georeferenziazione delle risorse, e collegandole all’offerta ricettiva ed enogastronomica del territorio, in modo da costruire itinerari integrati che, a partire da un nodo, siano capaci di generare diramazioni trasversali”.
Integrazione e riduzione delle disuguaglianze in ambito lavorativo
Ma per una crescita economica e sociale che sia inclusiva per tutti, una parte fondamentale riguarda l’ambito lavorativo, dov’è imprescindibile garantire pari opportunità per tutti riducendo le disuguaglianze. Anche qui le tecnologie, secondo Francesco Moretti di Fincons, soprattutto nel periodo della pandemia, “hanno permesso di tenere personalmente e professionalmente connesse le persone nei periodi di isolamento. Con il passare della pandemia abbiamo l’opportunità di proseguire il nostro viaggio con un bagaglio molto più ricco di quanto abbiamo imparato e che non dobbiamo dimenticare di applicare: la tecnologia ha dimostrato che intere organizzazioni possono lavorare da remoto con successo. Datori di lavoro possono ora assumere indipendentemente da una posizione geografica e ciò può aprire un nuovo mondo di opportunità anche a chi vive in zone diverse del mondo. In Fincons abbiamo applicato ciò già da prima della pandemia, per la natura del nostro lavoro: abbiamo gruppi di persone, indipendentemente da genere, domicilio, etnia, religione, pensiero, che collaborano all’unisono per il successo dei nostri clienti”.
E questo, per Stefano De Nicolai, Professore di Innovation management all’Università di Pavia, aprirebbe per tutti un ampio set di opportunità dal punto di vista economico. “Una su tutte: l’uso delle tecnologie digitali nei processi di HR. Grazie all’uso dei big data e dell’intelligenza artificiale si hanno davvero a disposizione strumenti clamorosi per garantire pari opportunità lavorative e salariali, ad esempio, per dare più possibilità a tutti di dimostrare quanto si vale sul lavoro, oppure accrescendo la trasparenza dei processi di HR. Nulla di futuristico: da questo punto di vista la ricerca e il know-how sono molto avanzati e si potrebbero fare grandi cose. Fra i freni a questa rivoluzione vi sono però rilevanti questioni di privacy. Infatti – paradossalmente – l’innovazione digitale nei processi di HR accentua la percezione di aumento del controllo strumentale dei dipendenti, e questo può avvenire davvero se non si fanno le cose per bene. Si torna sempre lì: cultura digitale. Sarà pure un mantra diventato ormai un po’ noioso, ma non c’è alternativa. Si deve partire da un piano per lo sviluppo di cultura digitale, ispirato a principi valoriali sani. Il resto verrà poi di conseguenza”.
I rischi delle tecnologie: la sostenibilità digitale come presupposto fondamentale
Fare in modo, quindi, che l’applicazione delle tecnologie e l’innovazione digitale, in ogni ambito, sia ancorata su principi e valori sani, è un presupposto fondamentale. Infatti, se come abbiamo visto queste hanno le potenzialità per contribuire ad una riduzione delle disuguaglianze e delle discriminazioni, d’altra parte possono rischiare di accentuarle. Ma questo, riprendendo quanto detto da Carlo Bozzoli, non dipende dalla tecnologia in sé, essendo quest’ultima neutrale: tutto sta nel modo in cui viene utilizzata.
“La pandemia ha dato una spinta ulteriore alla digitalizzazione dell’economia e della società. Esiste una varietà di nuove tecnologie che rappresenta una specie di ‘cassetta degli attrezzi’ digitale per sviluppare nuove soluzioni in ogni contesto. Per esempio, l’AI, e in particolare il machine learning, stanno progredendo in modo esponenziale, e tutti gli stakeholder competono per sfruttarne le potenzialità – spiega Tiziana Catarci, Direttrice del DIAG alla Sapienza, Università di Roma – Parallelamente alla trasformazione digitale c’è però, in questi ultimi anni, un altro imperativo: l’attenzione alla sostenibilità, non solo per quanto riguarda i fattori ambientali, ma in generale per la generazione di valore sociale. La convergenza, che si comincia ad attuare, tra sostenibilità e digitale permetterà in un prossimo futuro di sfruttare le grandi potenzialità delle tecnologie nell’ottica della creazione di valore socioecologico, per un futuro più equo, inclusivo, solidale e sostenibile”.
E perché questo futuro possa realizzarsi, perché tutti possano beneficiare di quanto di buono le tecnologie possono apportare, una precondizione essenziale, secondo Roberto Lippi, è da rintracciare nell’accessibilità. “Credo che nel mondo – specialmente quello in via di sviluppo – una prima, enorme barriera affinché le tecnologie possano facilitare processi di integrazione, e non diventare ulteriore fattore di disuguaglianza, è rappresentata dalla disparità nell’accesso alle tecnologie. La pandemia ha dimostrato, ad esempio, come il broadband e il digital divide hanno tracciato i confini tra chi ha potuto continuare ad usufruire di una istruzione (seppur precaria) in DAD e chi, specialmente nelle periferie urbane e nel mondo rurale diffuso, ha subito processi radicali di descolarizzazione. Per chi non ha energia elettrica (oltre ad acqua potabile) e quindi non può accedere ad alcun tipo di connettività (come nel caso di larghe aree dell’America Latina, dell’Africa o dell’Asia) parlare di integrazione attraverso le tecnologie digitali può sembrare un lusso. Eppure, oggi quelle stesse tecnologie potrebbero essere poste facilmente al servizio delle comunità in forma relativamente semplice e poco costosa, il che permetterebbe di avanzare in una nuova concezione di servizi di base. Oltre alla connettività individuale, questa nuova logica – non più legata alle grandi infrastrutture di rete – permetterebbe di avanzare in temi cruciali come la salute (telemedicina preventiva e diagnostica), educazione a distanza, valorizzazione culturale e via dicendo. Il problema è che le politiche pubbliche legate ai servizi ai cittadini (e, in parte, la stessa cooperazione internazionale) sono ancorate alle concezioni del secolo XX, e in esse non sono stati incorporati quei concetti (e logiche di finanziamento) che permetterebbero alle tecnologie – ed in particolare alle ICT – di essere un motore della sostenibilità, in particolare quella sociale, e di porsi al centro della riduzione delle diseguaglianze e dei processi di segregazione socio-spaziale”.
E questa disparità nell’accesso alle tecnologie, in un contesto nel quale assumono un ruolo sempre più centrale, per Luigi Mundula costituisce un forte ostacolo nel fare in modo che quella conoscenza che sono in grado di abilitare, e della quale hanno parlato anche Carlo Bozzoli e Giovanni Battista Gallus, possa diventare realmente un bene comune. “Uno dei problemi è legato al concetto dell’appropriazione dell’enorme mole di dati generati all’interno della rete nelle mani di pochi soggetti, che li vendono a soggetti/istituzioni che li utilizzano per orientare le nostre scelte d’acquisto (nel migliore dei casi) o di preferenza elettorale (nel peggiore dei casi). Il punto è passare dai big data agli open data, mettendo in campo le azioni necessarie perché la conoscenza diventi un bene pubblico in ogni campo. Il dibattito sull’opportunità di tale scelta è ormai di lunga data: i sostenitori del ‘no’ si rifanno all’idea che senza una forma di tutela o protezione della conoscenza non ci sia incentivo per l’innovazione, mentre i sostenitori del ‘sì’ affermano che solo con la condivisione della conoscenza è possibile l’innovazione. A sostegno di questa tesi, c’è da notare che il knowledge sharing è oggi la base di quelle che vengono chiamate Smart Citiy, e che sono considerate il motore dello sviluppo (sostenibile) del nostro futuro”.
I pericoli degli algoritmi: come evitarli?
Ma la tecnologia può portare, quando non usata a dovere, ad altri pericolosi “rovesci della medaglia”. Un esempio su tutti è sicuramente rappresentato dall’utilizzo degli algoritmi: “svariate ricerche hanno evidenziato un tremendo potenziale discriminatorio dei sistemi di ricognizione facciale, o di affidabilità creditizia, o ancora di controllo dell’immigrazione. Questi sistemi, infatti, tendono spesso a riprodurre (e esacerbare) le discriminazioni razziali, di genere o di status – spiega Giovanni Battista Gallus – Si deve evitare qualsiasi forma di ingenua accettazione fideistica, e occorre un controllo rigoroso e costante delle logiche di funzionamento, a partire dai dati di addestramento, e si deve avere il coraggio, laddove non si riesca ad eliminare le possibili distorsioni, di vietare l’uso delle tecnologie più pericolose o impattanti, come il riconoscimento biometrico nelle aree pubbliche”.
Sulla stessa linea di pensiero anche Carlo Bozzoli, secondo il quale, ad esempio, “è celebre il caso degli strumenti di Computer Vision: diversi studi dimostrano come gli algoritmi utilizzati abbiamo determinato un forte gap nella capacità di individuare volti di persone appartenenti a generi e gruppi etnici differenti. Mi preme sottolineare come in questi casi il problema non sia affatto insito nella tecnologia in sé, ma nel modo in cui questa viene sviluppata da parte dell’uomo. Dobbiamo essere consapevoli di quali sono i rischi, e contribuire alla realizzazione di una tecnologia sviluppata in modo etico, nella quale non ci sia spazio per razzismo, sessismo, né per ogni tipo di discriminazione. Una tecnologia che sia, davvero, al servizio di tutti”.
“Dobbiamo stare attenti, infatti, alle facili mode – conclude Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute. Troppo spesso usiamo termini come ‘etica dell’intelligenza artificiale’. Dobbiamo invece ricordarci – come sottolinea Carlo parlando di ‘tecnologia sviluppata in modo etico’ – che non esiste l’etica delle tecnologie, ma l’etica di chi le sviluppa. Le tecnologie non hanno un’etica intrinseca, ma producono risultati che sono conseguenza dell’etica di chi le sviluppa. Concentrarci su temi come l’etica delle tecnologie produce il risultato di invertire oggetto e soggetto, deresponsabilizzando le persone dal loro ruolo, oggi cruciale per avviluppare un contesto sociale che sia davvero orientato a porre fine ad ogni forma di discriminazione. Troppo spesso vedo occasioni di confronto nelle quali si affrontano questi problemi come se le macchine’ avessero una loro indipendenza di pensiero ed un loro modello etico di riferimento: un po’ come se fossimo ben al di là della singolarità tecnologica. Dobbiamo riportare il pallino sul vero responsabile: l’uomo. L’etica delle tecnologie è l’etica di chi le sviluppa, della società nella quale si applicano, delle realtà sociali, politiche ed economiche che le costruiscono. Poi, chiaramente, la società è rideterminata dalla tecnologia e viceversa. Per questo ci troviamo di fronte ad un modello sistemico. È a queste realtà che dobbiamo guardare per un mondo senza discriminazioni. Il resto è esoterismo, e moda”.
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