Labbra sporgenti, ammiccamenti, tramonti: la scrittura emotiva

Verso il recupero della sostenibilità linguistico-digitale

C’era neve dappertutto in Irlanda. Cadeva ovunque nella buia pianura centrale,

sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allena e più a Ovest

sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto,

lassù sulla collina dov’era sepolto Michael Fury.

J. Joyce, Gente di Dublino

 

Si sente dire, molto di frequente, e, soprattutto, si legge che la lingua della rete è complessa. Ciò la renderebbe in-sostenibile. In realtà, questo ricorso alla complessità sembra immediatamente la metafora d’un grave errore d’interpretazione, un giudizio conveniente e che libera da obblighi di responsabilità l’osservatore, l’analista e, più in generale, l’utente stesso. Se si badasse un po’ di più alla qualità e al contenuto delle parole, molto probabilmente si scoprirebbero anzitempo parecchi grossolani e imbarazzanti equivoci. Complĕxu(m), come abbiamo già scritto nel capitolo “Sostenibile, sostenibilità: la lingua come rappresentazione coerente d’un’opera”, è aggettivo e participio passato del verbo complĕcti, il cui significato è abbracciare, comprendereComplĕcti, a propria volta, deriva da plectĕre, intrecciare. Di conseguenza, quando giudichiamo complesso qualcosa, ne ‘indichiamo’ gl’intrecci da cum-prehĕndere, afferrare, catturare, non diciamo affatto che l’oggetto della nostra riflessione è astruso e, per ciò stesso, lontano dai processi di assimilazione.

La complessità, semmai, può essere considerata come una sfida ermeneutica bell’e buona e uno sprone allo studio della più importante delle categorie sociali: la differenza. La differenza, infatti, dovrebbe generare una certa dialettica, includere e, insieme, rinnovare, produrre il cambiamento: è una legge della fisica, oltre che un principio di scienza della logica. Per paradosso, l’epoca della grande inclusione, quella di internet e del blogging interattivo o, in generale, del ‘people relations’ s’è trasformata in una tragicomica e colossale autoesclusione: si comunica dappertutto e in apparente libertà, ma si finisce col ‘delimitare’, giocoforza e più o meno consapevolmente, delle distanze, che pare siano inamovibili e indiscutibili. Piero Dominici, docente di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi all’Università degli Studi di Perugia, in un saggio pubblicato il 21 marzo 2016 su Il Sole 24 ore e intitolato La cultura: ‘motore’ del cambiamento, ma anche agente di democratizzazione e cittadinanza, scrisse:

“La società ipercomplessa e l’età dell’informazionalismo – questa, la nostra prospettiva – hanno segnato l’inizio di un complesso processo di civilizzazione fondato su Internet e i social media, che presenta specifiche regole di inclusione e cittadinanza e che, pertanto, chiede un ripensamento delle stesse categorie concettuali e delle relative definizioni operative.”

Esiste, nella prospettiva di Dominici, un luogo in cui la complessità può rinascere come dialettica, ma, purtroppo, non esiste ancora una dialettica tra informazione e comunicazione, come se l’informazione appartenesse a delle entità separate e intangibili e la comunicazione fosse lasciata agli esseri umani quale intrattenimento ludico-ricreativo; la qual cosa diventa preoccupante, quando quei ‘poteri’ che dovrebbero essere deputati alla ‘disciplina della rete’ non ammettono neppure l’esistenza delle categorie concettuali di coesistenza e compartecipazione.

A questo punto, è doveroso richiamare l’attenzione su un altro tema che molto spesso s’incontra in materia di lingua della rete. Lo abbiamo citato in apertura e si configura attraverso un aggettivo: in-sostenibile, scritto, non a caso, in questo modo. L’uso del prefisso latino in- è il segno dell’irresponsabilità o, diversamente, della superficialità con cui spesso ci si rifiuta di fare certe fatiche scientifiche. Il prefisso in questione – è risaputo – indica opposizione o privazione, reca in sé un valore negativo, per così dire. Nel capitolo dedicato all’analisi del concetto di sostenibilità, succitato, abbiamo documentato che “sostenibile” è un aggettivo deverbale che proviene dal suffisso latino -ĭbilis, suffisso che indica proprio la possibilità, l’esistenza d’uno spazio e di un modo dello sviluppo dell’essere umano attraverso l’interazione. Senza dubbio, impegnarsi in questo ambito di sostenibilità digitale può rivelarsi impegnativo, estenuante; non si tratta d’un’opera che si possa completare rapidamente, ma non possiamo neppure classificarla sbrigativamente, giacché ciò priverebbe di possibilità reali diverse generazioni, specie se teniamo in considerazione quelle future.

Se, com’è giusto, tentiamo di entrare sempre più all’interno del fenomeno linguistico e della sua esplicazione, notiamo, tra le altre cose, che il termine “complessità” non è affatto azzeccato. Anzi, possiamo dire, senza timore di smentita, che esso è comicamente fuorviante. Non è difficile ricordare che l’esordio di scrittura della comunità digitale si materializzò quasi subito in un codice tachigrafico: i ‘digitatori’ furono abili a convertire in poco tempo gli elementi del discorso in forme ora sincopate (la sincope di cui stiamo parlando è un’accezione un po’ forzata e diversa da quella originaria) ora sintetiche e, addirittura, simboliche: nn, xkè, tt, c6ketvtbtat, 3mendo et cetera. Insomma, si sviluppò una sorta di codice agrammaticale dello scambio rapido. A guardarlo con la smorfia di chi ha faticato sulle grammatiche, si sarebbe tentati di giudicarlo con sospetto e diffidenza, ma, nella sostanza, si tratta di uno dei tanti modi in cui una comunità linguistica si esprime: non elegante, certo, ma efficace. Successivamente si passò alla brachilogia, cioè alla concisione dello stile del discorso. I primi post sui social network erano caratterizzati da brevità: era evidente, oltre che inevitabile, in specie su Facebook, dove non s’è mai avuta la limitazione dei caratteri, l’impaccio dello scrivente, che mancava, all’inizio, di veri e propri punti di riferimento spazio-temporali, le cosiddette referenze. Si trattava ancora di una scrittura – ci concediamo un grecismo forte – adeittica, almeno dal punto di vista psicologico. I deittici sono quegli elementi del discorso, dimostrativi, pronomi, avverbi, mediante i quali noi costruiamo la forma spazio-temporale della lingua: oggi, qui, questo, io, lei et similia. Si comprende bene, dunque, che l’ingresso in una realtà di cui l’utente non conosceva i limiti aveva generato, in prima istanza, un’espansione meccanica e traumatica dei confini dell’io narrante, una sorta di semantica estensivo-quantitativa entro la quale lo scrivente si convinceva, presto e senz’approfondire, di potersi rivolgere al mondo e, soprattutto, d’avere un ruolo decisivo nel grande gioco dei significati comuni: già il messaggio del buongiorno accompagnato dall’immagine d’una tazza fumante, nella propria semplicità, n’era la testimonianza. Tale valutazione ci permette, per l’appunto, di definire adeittico proprio quel linguaggio i cui autori oltrepassano di forza le summenzionate forme spazio-temporali.

In questa prospettiva, ci pare un po’ artificiosa e, a tratti, caricaturale la teoria secondo cui la lingua digitale sarebbe un ibrido parlato-scritto. Se ne sono fatti interpreti alcuni autorevoli linguisti, ma ciò non può impedirci di fare un’analisi obiettiva. L’eventuale ibrido parlato-scritto avrebbe dovuto accogliere in seno al discorso condizioni morfo-sintattiche dell’uno e dell’altro, ma non si sarebbe dovuto configurare come aspaziale e atemporale. Verosimilmente, gli esperti facevano riferimento alla grammatica, ma, se il nostro tema resta la lingua digitale, la grammatica non è tutto e, da sé, non è un presupposto adeguato al bisogno specifico. La semantica e la pragmatica del linguaggio devono essere indubbiamente anteposte all’esame d’una sostenibilità linguistico-digitale. Ciò che s’è sottovalutato a lungo è costituito da una terza fase delle ‘scritture social’, la fase della scrittura emotiva, già presente, pur se, di fatto, in nuce, nella fase brachilogica.

In quanto alle caratteristiche della prosa, non possiamo fare a meno di riferire un periodare molto semplice, paratattico, povero di aggettivi e, di conseguenza, di ritmo; l’assenza di subordinazione riduce anche l’equilibrio temporale e, giocoforza, la qualità della narrazione. Non bisogna scandalizzarsene, è naturale che il registro venga, per così dire, sterilizzato e ‘omogeneizzato’ rispetto al grande insieme del quale fa parte: il bisogno di consenso e aggregazione prevale su tutte le altre spinte sociali. Il rischio della sostenibilità linguistica, però, è legato proprio al piano delle emozioni cui abbiamo fatto cenno introducendo il concetto di scrittura emotiva. Se consultiamo gli account delle grandi testate giornalistiche, possiamo trarne un esempio illuminante. Gli articoli che ottengono considerevole oggetto di pubblico, di solito, sono sostenuti da centinaia o migliaia di like, commenti e condivisioni: è, questa, una circostanza nota, com’è altrettanto noto che la maggior parte dei commenti è tangenziale, priva d’una connessione con l’articolo stesso; anzi, il più delle volte, si tratta di sfoghi. Il ‘commentatore’ sfrutta lo spazio di coesistenza per denunciare il proprio disagio; la qual cosa costituisce il vero aspetto problematico e paradossale, sicuramente non l’unico della rete, bensì uno dei più ‘urgenti’.

Parlare di scrittura emotiva vuol dire, dunque, circoscrivere un fenomeno centrale della comunicazione: non è espressione del parlato, come non è espressione dello scritto; è, invece, anzitutto e per lo più, un linguaggio esplosivo ed esclusivo del medium digitale. Un utente che ha appena avuto uno scontro privato con qualcuno non esita a fare un post in cui denuncia l’incidente, credendosi portatore di verità e cercando spasmodicamente il consenso dei propri seguaci-amici, quale che sia il numero. La persona in preda ai moti romantico-naturalistici pubblica la foto di un tramonto preceduta da un qualsivoglia aforisma e si propone come depositaria bellezza genuina. Non mancano mai coloro che si espongono in vetrina ammiccando, sporgendo le labbra e assumendo pose feline innaturali o sfruttando forme più o meno ‘gonfie’. I messaggi che istruiscono queste rappresentazioni sono quasi sempre gloriosi ed esaltano in modo parossistico la funzione emotiva del linguaggio, quella in cui domina incontrastato il mittente.

È appena il caso di chiedersi: siamo sicuri che queste dinamiche generino aggregazione e riducano le distanze o si tratta di un processo di autoemarginazione intellettuale senza precedenti, un’angosciante involuzione di genere?

In questa pratica, scompaiono totalmente dal discorso l’autentica e sana complessità del linguaggio e dell’essere, la sua ricchezza, fatta di categorie, quelle che già Aristotele aveva descritte – qualità, quantità, relazione, il dove, il quando et cetera –, e, in particolare, la funzione descrittiva, quella risorsa ‘magica’ – è il caso di chiamarla proprio ‘magica’ – riconoscendo la quale i critici ebbero a dire che, qualora Dublino fosse stata rasa al suolo, sarebbe stato possibile ricostruirla in modo fedele grazie alla narrazione di Joyce. Ecco: l’impegno di chi ha a cuore la sostenibilità digitale deve manifestarsi anzitutto nel recupero delle categorie del linguaggio, grazie alle quali ciascuno di noi sa di appartenere realmente a una comunità, non già d’essere il passeggero d’una qualunque stazione di periferia!

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